Due sono le opere – entrambe contemporanee – che ci aiuteranno ad approfondire il brano di Vangelo di Giovanni che questa terza domenica di Avvento ci propone (Giovanni 5,33-39). La prima è di Sieger Köder, sacerdote tedesco deceduto pochi anni fa; la seconda è di Emilio Isgrò, artista e scrittore italiano, ancora oggi vivente, noto per il linguaggio artistico della “cancellatura”.
Chiarissimo è il messaggio di Gesù in questa terza domenica di Avvento: «Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato» (v. 36).
E quali possono essere se non quelle che il capitolo 25 del Vangelo di Matteo ci presenta parlando di quello che sarà il “giudizio finale”? È sulla carità che saremo giudicati, su quella carità che il Messia ha reso concreta in tutta la sua vita pubblica, predicando e attualizzando l’avvento del regno di Dio: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo 25,40).
È quello che– visivamente – ci “dice” Köder nella sua tela, nella quale raccoglie tutte le sette opere di misericordia corporale (dar da mangiare agli affamati; dar da bere agli assetati; vestire gli ignudi; alloggiare i pellegrini; visitare gli infermi; visitare i carcerati; seppellire i morti).
Come ambiente per la loro collocazione, l’iconografia dedicata a questo soggetto di solito sceglie un luogo all’aperto, una strada o una città. Al contrario, l’artista tedesco sceglie una casa, proprio per sottolineare come le sette opere di misericordia corporale debbano essere segnate – anzitutto e soprattutto – dalla capacità di accoglienza di un ambiente domestico: l’accoglienza del bisognoso, del malato o del pellegrino; così come l’accoglienza di chi nella vita ha sbagliato e sta pagando. La casa di Köder è aperta a tutte le necessità umane. Una sola opera rimane all’esterno ed è, logicamente, quella della sepoltura dei morti. Tuttavia, si può scorgere anche questa grazie alla porta aperta della casa, porta aperta che vuole proprio esprimere il cuore di questa ideale famiglia: l’accoglienza del pellegrino, dell’uomo tout court.
Subito dietro il gesto in primo piano, con le due mani che danno cibo a un uomo di colore – e che è il punto più profondo della casa –, una donna è intenta a versare l’acqua nel bicchiere di un commensale: è emblematico che sia vestita di rosso, lo stesso colore visibile oltre la porta aperta, dove c’è la tomba con una croce nera. La scelta del rosso vuole sottolineare come la vera sete dell’uomo debba essere sete di verità e giustizia, in ultima analisi la ricerca di un senso di fronte alla violenza del mondo e alla morte, realtà che l’arte spesso colora di rosso. L’unica risposta che l’uomo può dare a questa ricerca è l’amore. Un amore, però, non semplicemente umano; ma l’Amore che Gesù – morendo per noi – ci ha lasciato. Cristo ha preso su di sé le nostre oscurità (volutamente la croce è nera) ma ci ha lasciato in eredità un Amore unico, certo, fedele fino e anche oltre la morte; un Amore che soddisfa la sete dell’uomo – come nell’incontro con la donna samaritana – con un’acqua per la vita eterna.
Oltre alla croce, nere sono anche le pareti della casa che dà spazio al dolore e alla croce altrui: nero è l’angolo dove siede un carcerato; nera è la parete che accoglie l’ignudo (la scritta in tedesco dice: “abiti per il terzo mondo”). In questa casa la croce è compresa e accolta, ma anche redenta. Colui che abbraccia il carcerato gli si fa vicino, prossimo.
L’assetato veste di viola, il colore liturgico di Avvento e Quaresima, colore che esprime il cambiamento. È il viola che si colloca fra il rosso dell’umano e il blu del divino e che, dunque, esprime l’idea del cambiamento. E non è un caso che l’uomo assetato abbia il volto di Gesù. È Cristo che ha sete di noi, della nostra fede, della nostra salvezza. Così come non è casuale che la donna che gli porge da bere abbia lo stesso volto della samaritana che è in un altro quadro di Köder: qui, dunque, l’artista rilegge l’opera di misericordia alla luce dell’incontro fra Cristo e quella donna, chiamata alla conversione del cuore nella ricerca di un’acqua che disseti l’anima.
L’altro colore presente è l’azzurro, ed è il colore centrale, quello della veste della ragazza che accoglie un pellegrino. Ed è questa l’immagine che il pittore tedesco, profondo conoscitore dell’ebraismo, vuole proporre al nostro sguardo. Nei testi talmudici ci si interroga spesso sulla grande importanza che l’accoglienza ha tra i popoli orientali. E i commenti dei rabbini sottolineano come Dio, per primo, si sia fatto pellegrino visitando Abramo senza esserne riconosciuto. Chi accoglie, ci dice l’artista tedesco, si apre al Mistero di Dio che entra nella sua vita: per questo, allora, la donna veste d’azzurro. Il pellegrino porta con sé la valigia dell’emigrante ed è uno straniero, così come migranti e stranieri furono i patriarchi (nella celebrazione della Pasqua ebraica, quando il componente più piccolo della famiglia incomincia a porre domande a quello più anziano, quest’ultimo inizia il suo racconto così: «Tuo padre era un arameo errante…»). Se Abramo non avesse trovato accoglienza, non sarebbe iniziata la storia di Israele. Se il Verbo di Dio non avesse trovato accoglienza nel grembo della Vergine, non avremmo la Redenzione. L’accoglienza, dunque, è la dimensione fondamentale della vita cristiana e deve abbracciare ogni campo dell’esistenza: dalla nascita fino al compimento.
In un’intervista Köder disse che la sua fonte di ispirazione per quest’opera fu la casa di Marta e Maria a Betania. Ecco allora che le protagoniste delle opere di carità sono proprio due sorelle, le due sorelle di Lazzaro, che aprirono lo loro casa all’ospitalità verso Gesù e gli apostoli, e che diventano così paradigma per tutte le forme di accoglienza che noi cristiani dobbiamo esercitare. La dimora dipinta da Köder è, in definitiva, la casa di tutti i cristiani, aperta alla costruzione del regno di Dio e all’imitazione del Maestro. Sempre, incessantemente, in ogni sua parola, in ogni sua testimonianza, in ogni suo miracolo o parabola, Gesù ha voluto dirci che la nostra conversione – che abbiamo sentito predicata da Giovanni Battista domenica scorsa – e il nostro essere cristiani veri non possono che radicarsi sull’amore vissuto e su un cambiamento del cuore.
Concludiamo la nostra riflessione con qualche parola sulla seconda opera scelta, di Emilio Isgrò.
Tutta l’arte del pittore e scrittore siciliano è caratterizzata dal linguaggio della “cancellatura”: l’assenza che Isgrò persegue in tutti i suoi lavori da metafora diventa metonìmia, luogo nel quale il linguaggio sostituisce il proprio contrario. L’assenza prende il posto della presenza, l’arte prende il posto del mondo.
Nel Cristo crocifisso che ci viene mostrato nel Forse Gesù la cancellatura assurge a portata profetica (come nel suo libro Il Cristo cancellatore). Se tutti i grandi precursori – e Gesù ne è l’esempio maggiore – sono personalità capaci di spezzare il tempo per dare avvio a nuovi inizi, Isgrò ci dice che la figura di Cristo può e deve essere allora interpretabile alla luce della “cancellazione”. Con le sue parole e le sue opere, che – sole – ci mostrano il volto misericordioso di Dio, Gesù lotta, vince e cancella il male, il peccato, il peso di una tradizione farisaica attenta alle apparenze e non alla sostanza della legge. E, sulla croce, l’Amore di Dio cancella la morte.
È il Dio cancellato e cancellatore di Isgrò, il Dio che si abbassa (cancellando, quasi, la sua divinità) per incarnarsi nella nostra quotidianità che ci insegna che è solo l’Amore – dono di Dio – che salverà gli uomini e il mondo. È solo l’amore per i nostri fratelli, radicato sull’amore per Dio che potrà trionfare e dare senso alla nostra esistenza.
È quello che ci dice Marco al capitolo 12 del suo Vangelo, quando Gesù, rispondendo a uno scriba che gli chiedeva quale fosse il primo di tutti i comandamenti, dichiara: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi» (Marco 12,29-31).