Anche oggi sono due le opere che ci aiutano ad approfondire il brano di Vangelo di Marco di questa quarta domenica dell’Avvento ambrosiano (Marco 11,1-11). Esse vogliono intercettare due dei tre momenti che l’evangelista ci propone in questi undici versetti. Dopo i preparativi (vv. 1-7), Cristo entra trionfalmente a Gerusalemme: e sarà l’ateo, modernissimo, Renato Guttuso che ci guiderà nella riflessione su questo ingresso, in una prospettiva del tutto particolare. Il brano marciano, poi, si conclude con un Gesù che sembra prendere le distanze da quello che si è appena svolto sotto i suoi occhi e si incammina sulla strada di Betània, e sarà Johannes Vermeer che ci aiuterà a capire il perché di questa scelta. È stata difficile la scelta dell’opera che ci presentasse l’ingresso a Gerusalemme, visto l’enorme impatto che questo brano evangelico ha avuto su centinaia di pittori di tutte le epoche, fino ai giorni nostri (vi invitiamo anche a soffermarvi – tra le tante – sull’originalissima lettura dell’episodio di una tela del 1921: Christ’s entry into Jerusalem dell’inglese Stanley Spencer, oggi custodita alla Leeds Art Gallery).
La scelta, come anticipato, è caduta sul siciliano Renato Guttuso, il cui Cristo entra a Gerusalemme – del 1985 – fu inserito nell’Evangeliario delle Chiese d’Italia, allora realizzato con la collaborazione di teologi e intellettuali, nonché con il contributo di diciotto artisti italiani, ciascuno dei quali dipinse un’opera che mettesse in evidenza un brano del Vangelo. Fu un lavoro pensato con la precisa volontà di dimostrare come la Parola di Dio possa – e debba – diventare non solo udibile, ma anche visibile; e fu presentato a Giovanni Paolo II nel marzo 1987, due mesi dopo la morte del maestro di Bagheria. Per noi cristiani è sempre una fortissima provocazione quando un non credente dimostra questa voglia di cercare Dio; e allora non possono non risuonare nei nostri cuori le parole che Blaise Pascal mette in bocca a Gesù sulla croce: «…tu non mi cercheresti se non mi avessi trovato” (Pensieri, 553)».
Nell’Evangeliario egli volle illustrare con un’incisione all’acquaforte l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, ponendo l’accento più sulla movimentata festa di popolo che sulla processione verso la città santa. Scelse colori accesi e simbolici che vogliono anche richiamare i colori degli abiti nei diversi tempi dell’anno liturgico: il rosso, usato tra l’altro proprio nella Domenica delle Palme, che ricorda non solo la passione e il sangue versato da Cristo e dai martiri, ma anche il fuoco dello Spirito Santo; il viola, colore della penitenza e dell’attesa (quello di Avvento e Quaresima), che non a caso è posto ai piedi del Maestro, quasi a voler indicare la croce, meta finale della sua venuta a Gerusalemme; il verde (in uso durante il tempo ordinario), simbolo della speranza, che indica la vita nel suo aspetto di quotidianità; il bianco, che rimarca il mistero di Gesù risorto, regnante e glorioso, a significare la fede, la gioia e la purezza; il blu, colore del divino.
L’opera è costruita intorno all’incrocio di sguardi scambiati tra il Nazareno, in abito bianco, e la donna vestita di nero, posta vicino alla testa dell’asino, a voler sottolineare che il Cristo è luce per tutti, specialmente per chi soffre. È l’incontro dell’umanità sofferente con l’umana sofferenza del Cristo: «Eccoli Gesù e la vedova, occhi negli occhi – non c’è nessuno e nient’altro intorno a loro due – bianco e nero» (Crispino Valenziano, Guttuso credeva di non credere, Libreria Editrice Vaticana, p. 103).
Sulla sinistra, in primo piano, c’è una donna che ha deposto a terra le palme e implora Gesù innalzando le mani al cielo, quasi preannunciando quelle della croce. È un’evidente citazione di un affresco di Raffaello. Lo stesso Guttuso, nel 1965, aveva dichiarato: «Guardando la donna di schiena in ginocchio nell’Incendio di Borgo [di Raffaello] non posso non pensare alla Maddalena nella Crocifissione di Masaccio a Napoli».
Al centro della composizione – così come al centro del brano evangelico – Cristo è attorniato dalla folla festosa con i rami di palma levati in alto e da numerose mani tese. Tra queste, che acclamano osannanti il «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (v. 9), a destra, sopra la donna in nero, da fuori scena si protendono due mani, quelle dello stesso artista, come egli confermò in un’intervista: queste ultime sono anche il simbolo delle nostre mani, che cercano una speranza di liberazione dalla sofferenza e dal peccato.
Ma Gesù, ci dice il Vangelo, «…dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània» (v. 11): all’attesa messianica espressa dalla folla (che nasce da un equivoco sulla sua persona, perché la gente si aspetta in lui il liberatore politico) Marco contrappone la constatazione del calar della sera. E il Maestro se ne va a Betània, proprio perché è lì – e non a Gerusalemme – che il Nazareno sarà unto con un’unzione alquanto paradossale (Marco 14, 3-9).
Sarà lì, a tavola nella casa di Simone il lebbroso, che giungerà una donna con un vaso di alabastro pieno di profumo di puro nardo, di grande valore, lo romperà e ne verserà il contenuto sul suo capo (nella versione di questo episodio nel Vangelo di Luca – Lc 7,36-50 – la protagonista è una prostituta che entra furtivamente, di nascosto, si ferma dietro a Gesù e compie uno dei gesti del suo mestiere: lavare i piedi dei clienti e profumarli). Sono pochi i personaggi femminili del Vangelo di Marco, ma sono assolutamente eccezionali (si veda anche, al capitolo 7, la donna siro-fenicia, che “converte” Gesù). A Betània quella sconosciuta peccatrice riconoscerà in Gesù il Messia di Dio, compiendo un gesto totalmente gratuito, non richiesto. Ha sentito parlare di Gesù, lo ha ascoltato e lo ama a tal punto da osare con audacia un gesto straordinario.
E subito, alla vista dei gesti – ambigui, se non chiaramente erotici, come nella versione lucana – che ella compirà, si creeranno imbarazzo e scandalo tra i presenti, e anche in noi che leggeremo. È la differenza tra noi e lui: mentre Gesù vede una donna che ha sofferto e che ancora soffre, che ama ed è in cerca di amore, noi – con i farisei presenti al banchetto – vediamo una peccatrice. Ma quella donna è colei che ci insegna a cogliere l’importanza del momento dell’incontro con Gesù. Esso diventa il momento in cui si gioca l’essenziale di quel che costituisce l’esistenza autentica di ogni individuo: è un tempo che si accoglie, incontro al quale bisogna saper andare nell’istante in cui ci si manifesta, e per il quale bisogna anche donare tutto e perdere tutto. È ciò che questa donna farà a Betània.
Sempre in quel villaggio c’è anche la casa delle sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, il cui incontro con Gesù (Luca 10,38-42) ci viene mostrato con grande maestria dalla tela di Vermeer. C’è qui, di nuovo, come nell’opera di Guttuso, tutto un gioco di sguardi: quello impaziente e frettoloso di Marta, la quale, distolta per i molti servizi, rimprovera Gesù perché obblighi la sorella ad aiutarla; quello attento e amorevole di Maria, rannicchiata ai piedi di Gesù (nella stessa posizione della donna peccatrice nel precedentemente citato Vangelo di Luca) in posizione di ascolto, di discepola, perfettamente conscia che solo fissando lo sguardo su di Lui ci si può salvare; quello, infine, sereno e compassionevole di Cristo che risponde: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (vv. 41-42).
Facciamo nostro, allora, lo sguardo di Gesù, che «…dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània» (v. 11). Uno sguardo che sa accogliere e amare: tante volte, nei Vangeli, troviamo un Gesù che fissa lo sguardo su qualcuno (Mc 10,21; Lc 9,38; Lc 19,5; Lc 20,17; Lc 22,61; Gv 1,36; Gv 1,42); uno sguardo che sa comprendere, accettare e perdonare anche il rifiuto (si pensi al giovane ricco); uno sguardo che crea, in ogni caso, relazioni e occasioni di grazia e perdono.
L’augurio che dobbiamo fare a noi stessi, in primis, e a tutti i nostri fratelli è che tutti i nostri gesti siano misurati con gli occhi di Cristo, quegli occhi che grandi artisti come Guttuso e Vermeer ci hanno saputo così magistralmente mostrare.