Il Vangelo di questa quinta domenica di Avvento ambrosiano (Giovanni 1,19-28) ci presenta di nuovo la figura del Battista che, interrogato da sacerdoti e leviti, afferma di essere solo un precursore, di preparare la via a qualcuno che deve venire dopo di lui, nei confronti del quale dice di non essere «degno di slegare il laccio del sandalo» (v. 27). Per fare questo Giovanni battezza con acqua, predicando quella conversione di vita e quel cambiamento del cuore che anche a ciascuno di noi vengono richiesti nel tempo di grazia dell’Avvento. Facciamoci allora aiutare da due tra le centinaia di dipinti che hanno come soggetto il Battesimo di Gesù, che mostrano come Giovanni ci indichi con fermezza che è Cristo colui sul quale la nostra vita e la nostra fede devono porre radici. Quelle scelte sono opere tra loro lontanissime nel tempo, nel gusto, nell’interpretazione dell’episodio evangelico.
La prima tavola è di un indiscusso maestro del Rinascimento italiano, Piero della Francesca. Fu commissionata dall’Abbazia camaldolese di Sansepolcro – città natale del pittore – ed è una delle opere più controverse dal punto di vista cronologico, visto che gli storici dell’arte non sono affatto concordi se essa debba essere considerata uno dei primi dipinti conosciuti di Piero o se sia invece frutto della fase matura dell’attività dell’artista. La composizione, nella quale l’azione è sospesa nel momento in cui l’acqua sta per scendere sul capo di Cristo, dà all’osservatore un senso di grande calma e serenità. Gesù è a noi di fronte, immobile, e sopra di lui compare la colomba dello Spirito Santo. Sulla sinistra, accanto a un grosso albero frondoso (un noce, probabile richiamo alla leggenda di fondazione della città di Sansepolcro, in quella che anticamente era chiamata “valle di Nocea”), tre angeli assistono alla scena, mentre sulla destra un uomo si sta togliendo i vestiti. Sullo sfondo, incorniciati dalla schiena arcuata del discepolo che si spoglia e dal fianco del Battista, stanno passand0 dei sacerdoti greci, uno dei quali indica, stupito, il cielo; espediente grazie al quale Piero vuole alludere al “cielo spalancato” dal quale discende la colomba. Il gesto del sacerdote, così come il braccio e la gamba del Battista accentuano le linee di forza che rimandano alla centralità della figura di Gesù.
La composizione di Piero si basa su una rigorosissima costruzione geometrica, con un quadrato sormontato da un semicerchio. Se dal lato superiore del quadrato costruiamo un triangolo equilatero (antico simbolo trinitario), tutto concorre a mostrare che Cristo – vero Dio e vero uomo – è centro e fondamento della nostra fede: il vertice inferiore del triangolo viene a coincidere con il piede del Messia e al suo centro troviamo le mani giunte di Cristo. Il suo ombelico – simbolo evidente della sua condizione umana – è all’incontro delle diagonali del quadrato; e sull’asse del dipinto si allineano, con esattezza geometrica la colomba, la mano di Giovanni Battista che regge la coppa e il corpo di Gesù. La colomba si trova al centro dell’ideale cerchio e le sue ali sono disposte lungo il suo diametro. L’asse mediano – che allude alla rivelazione di Gesù come Figlio di Dio – genera una partizione non simmetrica, con l’albero a sinistra che divide la tavola in rapporto aureo (ricordiamo solo che in matematica e nelle arti figurative la sezione aurea è anche chiamata “proporzione divina”).
Inoltre, inscrivendo nel quadrato un pentagono, esso viene a racchiudere la quasi totalità delle figure, creando parallelismi con le linee di forza della composizione. Fermiamoci qui, anche se molto ci sarebbe da aggiungere all’analisi di questo dipinto e della sua ricchissima simbologia. Nella composizione di questa tavola Piero della Francesca ci mostra come tutto, nel Giovanni Battista da lui dipinto, ci dice: «…ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Giovanni 1,34).
La seconda opera – a noi contemporanea, del sessantottenne Alfredo Pettinari – è, da pochi anni, ospitata nella chiesa del suo paese natale, nel lodigiano. Suggestive sono le sue interpretazioni del battesimo di Gesù e della figura del Battista. Il Precursore riconosce nel Messia l’Agnello di Dio, mite e mansueto, che viene nel mondo per mostrare all’uomo il volto misericordioso di Dio.
Viene mostrato un Gesù giovane – tutto compreso nella sua missione salvifica –, reso così pienamente umano, nostro fratello e amico; eppure trasfigurato dalla presenza luminosissima dello Spirito Santo. Cristo viene per ognuno di noi, per invitarci a guardare il nostro cuore per cambiare la nostra vita. Scende qui nelle acque del Giordano, così come scenderà, il Venerdì Santo, nel sepolcro per restaurare l’uomo nella sua bellezza divina come immagine di Dio, che è Bellezza di ogni bellezza. Scendendo nelle acque gelide della morte e del peccato, Gesù ci raggiunge nelle nostre morti e nelle paludi dei nostri peccati, per riportarci, però, alla gloria della risurrezione, che sarà bellezza incorruttibile, luce senza fine, gioia infinita.
La figura solida e armoniosa del Battista si erge su un piccolo promontorio roccioso e svetta verso il cielo quasi con lo stesso slancio delle canne che, sulla sinistra, si elevano nitide ed essenziali, dritte e altissime, percorse da un fremito di attesa e da un fulgido riverbero di luce: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento?» (Matteo 11,7).
È solo il soffio di Dio che può piegare Giovanni: lo sospinge e trae dal suo intimo le vibrazioni di una Voce, calda, forte e autorevole, che chiama gli uomini, li raduna e poi umilmente li consegna a un Altro. La roccia su cui il Battista è inginocchiato diventa simbolo di Cristo, la roccia nuova da cui scaturisce il fiume della vita che disseta coloro che in Lui credono. Se il corpo di Giovanni è rivolto verso il cielo, il suo capo è chino verso colui che ora – qui, nelle acque del Giordano – rende attuali speranze e attese. Le mani che hanno attinto l’acqua del fiume della Terra Promessa, ora chiuse a conchiglia, si protendono sul capo di Gesù con un gesto riverente ma anche deciso: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?» (Matteo 3,14).
Giovanni è perfettamente consapevole di essere un uomo carico di limiti, di oscurità e di incomprensioni di fronte al suo Dio che, pur senza ombra alcuna, si sottomette a lui. Ciò nondimeno, è uomo aperto all’infinito, fedele alle Scritture, pronto ad adempiere il suo compito e a essere docile strumento di quello Spirito che avvolge Gesù. Spirito che viene rappresentato come un cono di luce dalla radiosità penetrante: lo stesso Giovanni ne diventa partecipe, divenendo una fiaccola accesa alla luce di Cristo. Lo Spirito è un’epifania di luce che tutto impregna e che tutto trasfigura ed esalta. Le stesse mani del Battista paiono colme di luce più che di acqua, perché il fuoco dello Spirito ha deciso di venire nell’umana quotidianità e l’ha investito di una missione: «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.» (Giovanni 1,6-8).
Il giallo carico delle sue vesti assorbe la luce, che si stempera in riflessi aurei fin lungo i fianchi. Il colore giallo esprime l’eternità e la fede, è simbolo della trascendenza e della potenza divina. Ma è anche la tinta del declino: ce lo ricordano le spighe ormai mature dell’estate. La missione di Giovanni, infatti, sta per concludersi: egli è ambasciatore di un altro più grande di lui, che – da questo momento – prenderà il centro della scena. Il Battista, ora, tace, perché è arrivata la Parola. Ora si svela Dio: uno squarcio dal cielo, un torrente di luce abbagliante, un biancore che ricopre le rocce, accarezza l’esilità delle canne, ingloba nel suo fulgore l’acqua del Giordano.
Gesù è raccolto in preghiera, con il capo chino dinanzi a Giovanni che lo battezza: nell’espressione del viso si coglie il mistero, per noi inesplorabile, di un colloquio silenzioso e tenerissimo del Figlio col Padre fino al momento in cui i cieli si squarciano e il mondo divino viene a contatto col mondo dell’uomo: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (Matteo 3,17). Il suo viso è schermato dai capelli che scendono a velarne lo sguardo. La mano destra si posa sul petto e pare voler trattenere lo slancio dei pensieri e delle emozioni: già da ora la docilità di Gesù al progetto del Padre è carica di sofferenza. In quel gesto ci sono anche l’offerta e la gioia ineffabile della gratuità. Le spalle di Gesù sono lievemente inclinate in avanti, pronte ad assumere il peso dei peccati degli uomini, ma anche a ricevere l’investitura di Messia e di Figlio di Dio. Nell’umiltà del gesto è già presente la regalità divina.
Tutta la tela la celebra: nello slancio verticale delle figure, nell’impalpabile bellezza del canneto, nello scorrere solenne e misterioso delle acque, nel fulgore abbagliante della luce, nell’incanto delle rocce che il raggio di Dio ammorbidisce ammantandole di luce evanescente. Più di tutto, però, la regalità di Gesù appare nel gesto di chinare il capo e di accogliere la volontà del Padre per camminare verso la croce. Grazie, allora, a questi due artisti, che ci fanno comprendere quel che l’Avvento chiede a ciascuno di noi: posare i nostri occhi su ciò che è vero («Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi»: Giovanni 8,31-32); mettere in gioco la nostra libertà nella ricerca di ciò che è giusto; discernere nel nostro cuore che solo nel Cristo che il Battista ci indica può esserci la fonte di ogni nostra bontà; riconoscere nel Figlio di Dio – il Logos Incarnato – tutta la bellezza del Padre.