«La bellezza: non ci si mette a discutere su un vento d’aprile. Quando lo si incontra, ci si sente rianimati. Come quando s’incontra […] il bel profilo di una statua o di un volto». Così scriveva il poeta statunitense Ezra Pound – in un suo saggio del 1913 – esplicitando il fatto che la bellezza si può solo intuire, non la si spiega; essa ci trafigge anche se non la si ricerca. Ed è esattamente quel che succede quando, salendo le scale che portano al primo piano dell’ex convento di San Marco a Firenze, ci si trova improvvisamente davanti all’affresco del Beato Angelico (pseudonimo di fra’ Giovanni da Fiesole) che ci guiderà nella comprensione del brano evangelico di questa ultima domenica di Avvento: l’Annunciazione a Maria (Luca 1,26-38a). Si rischia una vera e propria “sindrome di Stendhal” davanti all’opera che ci rivela tutta la profondità dell’arte di questo pittore (beatificato da Giovanni Paolo II nel 1982) che fu frate domenicano fino in fondo alla sua anima. E fu proprio san Tommaso, il “doctor angelicus” – altro grande domenicano dal quale il nostro pittore può aver mutuato la qualifica di “angelico” –, che divenne la sua guida per il dipingere, quando nella sua Summa Theologiae definisce la bellezza e la funzione dell’arte, che deve esprimere il pulchrum, il verum e il bonum, cioè il bello, il vero e il buono. Saranno proprio gli insegnamenti dell’aquinate – che definisce il bello come somma di completezza (integritas), di proporzione (consonantia) e di comprensibilità (claritas) – a forgiare la visione pittorica di fra’ Angelico. Ma questi riuscirà ad andare oltre, perché la claritas diventerà qualcosa di più: sarà quella della luce che permea tutte le sue opere.
L’affresco è ambientato in una loggia, completamente intonacata di bianco, che si affaccia su un giardino chiuso da una palizzata (allusione al medievale hortus conclusus che richiama la verginità di Maria), oltre il quale si vede un bosco con cipressi. L’ambientazione è spoglia ed essenziale, con un’unica nota decorativa: i capitelli, ionici e corinzi. Non vi sono arredi; la Vergine è vestita con un abito modesto (che ricorda la veste domenicana) e l’Arcangelo Gabriele ostenta due bellissime ali di piume di pavone, dipinte con i colori dell’arcobaleno. Viene qui mantenuta l’antica iconografia angelica – risalente alla fine del XIII secolo – in cui compaiono gli elementi del pavone, simbolo della sapienza divina, e dell’arcobaleno, emblema della presenza di Dio fra gli uomini. Maria e l’angelo si scambiano il saluto incrociando le braccia sul petto, secondo un antico cerimoniale che ricorda l’iconografia bizantina. Le parole dell’Annunciazione sono dipinte in basso, vicino alla base della colonna centrale, all’incirca all’altezza degli occhi dello spettatore. Sotto l’affresco, invece, si trova un invito alla preghiera: “VIRGINIS INTACTAE CUM VENERIS ANTE FIGURAM PRETEREUNDO CAVE NE SILEATUR AVE” (Quando passerai davanti alla figura della Vergine intatta, stai attento a non dimenticare di dire un’Ave Maria).
Molti sono i livelli di lettura. Iniziamo dai simboli che richiamano una “soglia”, perché raffigurare il mistero dell’incarnazione esige proprio l’oltrepassare – come paradossi congiunti – sia il tempo della storia che lo spazio naturale. L’effetto “soglia” è sempre presente nella pittura del XV secolo e nelle opere di inizio ‘400 questi dettagli servono a rendere la presenza nello spazio insolita ed enigmatica, latrice di un segreto che rinvia all’alto e a un Altro. In questa Annunciazione, in particolare, la porta che si apre dietro alla Vergine – e che subito viene controbilanciata dalla successiva finestrella chiusa da un’inferriata – rinvia subito all’idea di una soglia varcata, ma intatta. È il simbolo pittorico del sì di Maria, dell’accettazione di una maternità verginale, della soglia dell’umano superata dall’irruzione del divino.
In fondo, una piccola finestra si apre sul bosco al di là dell’hortus conclusus: esso è il simbolo di un Paradiso chiuso all’uomo, dopo il peccato originale, ma che, grazie alla scelta di obbedienza della Vergine – la nuova Eva – e al sacrificio di Cristo – il nuovo Adamo –, avrebbe riaperto le sue porte (il tema dell’Eden perduto è chiaramente mostrato in un’altra Annunciazione di fra’ Giovanni, dipinta all’incirca nel 1430, e custodita nel Museo del Prado a Madrid).
In pittura, però, una soglia – oltre a segnare il confine tra due zone dello spazio – può anche fungere da asse di trasposizione tra lo spazio rappresentato dal dipinto e il luogo virtuale in cui l’artista vuole collocarci. L’affresco, così, mette insieme il passato (ciò che è accaduto a Nazareth), il presente (quel che l’osservatore vede) e il futuro (ciò che l’episodio evangelico vuole insegnare alla nostra vita di uomini): ogni giorno, passando ante figuram, il frate devoto trasforma l’enigma visibile in uno svelamento del mistero.
Vi è, allora, un asse privilegiato da tutti i pittori di Annunciazioni, in tutte le epoche (e particolarmente nel ‘400): la colonna. Come se il pittore si compiacesse a mettere lo spettatore di fronte a quella che l’angelo e la Vergine mostrano essere oggetto anche della loro contemplazione. Nell’Annunciazione di San Marco, infatti, una grande colonna corinzia si impone a noi come asse di una simmetria che si dispiega in due ampie arcatelle e che assegna i luoghi rispettivi dell’Arcangelo Gabriele e di Maria. Pur non trovandosi nel centro geometrico dell’immagine – a causa del giardino che chiude, a sinistra, lo spazio dell’incontro –, essa si impone con forza come asse centrale. Inoltre, esattamente al di sotto di questa, il Beato Angelico ha dipinto la parola “ANTE”, davanti. Così facendo ci pone davanti a un simbolo dai molteplici significati. Siamo in presenza di un elemento che contribuisce a definire lo spazio austero del colloquio angelico e che – insieme al sistema di volte in ritmo ternario di cui fa parte (si pensi al significato del numero tre) – denota al tempo stesso lo spazio storico di Nazareth e quello sacro dell’immagine: non è un caso che l’architettura delle colonne evochi il vero luogo in cui quell’immagine fu dipinta, il convento stesso. Essa, allora, assume un significato esegetico. Un testo di Rabano Mauro – erudito carolingio del IX secolo, abate e vescovo – ci fornisce alcuni indizi: «La colonna è la divinità del Cristo (divinitas Christi), così come nell’Esodo la colonna di fuoco precedette il popolo attraverso l’oscurità […]. La colonna è l’umanità del Cristo (humanitas Christi), così come nell’Esodo la colonna di nubi guidò il popolo. […]. La colonna è l’umile predicazione del Cristo (humilis praedicatio Christi), così come è detto nei Salmi: “Nella colonna di nubi, parlava con loro” […]. Per ‘colonne’ si intendono gli angeli santi, così come è detto in Giobbe: “Le colonne del cielo cominciano a tremare e accorrono a un suo semplice cenno del capo” […]. Per ‘colonne’ si intendono i discepoli, così come è detto in san Paolo: “Giacomo, Cefa e Giovanni, che si vedeva essere delle colonne” […]. Per ‘colonne’ si intendono le azioni del Cristo, così come è detto nel Cantico: “Le sue gambe sono come colonne di marmo”, perché le azioni del Cristo sono diritte e solide. Per ‘colonne’ si intendono le Sacre Scritture […]. Per ‘colonne’ si intende la rettitudine della fede […]. Per ‘colonne’ si intendono le virtù interiori della mente». Allora, il fatto di stare dinanzi alla figura della colonna – magari mormorando un’Ave Maria – forniva al domenicano del ‘400 l’occasione di rafforzare le proprie virtù interiori. Il testo di Rabano Mauro funziona come una vera e propria gerarchia che va dalle molteplici piccole colonne dell’umanità (virtù interiori, fede, azioni, predicazioni) verso colonne sempre più alte (apostoli, angeli) per giungere – alla fine – alla colonna più importante di tutte: quella che connota la Parola, la carne e la divinità di Gesù Cristo, che l’Annunciazione rende possibile. Quando Rabano Mauro parla della colonna sottintende tre cose: il Verbo che Cristo trasmette agli uomini, l’umanità della sua carne e la divinità del suo essere. E tutto questo viene reso possibile dalla risposta di Maria all’Annunciazione.
Secondo uno schema quasi universale nella storia della pittura, anche il Beato Angelico dispone il personaggio-chiave sulla destra dell’immagine. Però, la soluzione qui adottata dal pittore è più sottile: consiste nel collocare la Vergine contemporaneamente verso un bordo e verso un centro. Verso un bordo, in quanto il colloquio spinge l’interlocutrice a destra dell’asse centrale segnato dalla colonna, ma anche verso il centro dello spazio rappresentato, dal momento che l’immagine mostra soltanto due arcatelle di un edificio strutturato in tre spazi fra le colonne. La Vergine è stata spostata sulla destra in quanto interlocutrice dello spazio storico – e tale posizione accentua l’umiltà di un essere umano visitato da un essere celeste –, ma occupa anche, virtualmente, il centro del luogo in cui si trova, come una regina, davanti alla quale l’angelo si inginocchia: il rapporto di umiltà si inverte poiché Maria, madre di Dio, si situa al di sopra di tutti gli angeli del cielo.
C’è, poi, un’altra giustificazione per lo spostamento della dimora di Maria: l’austera architettura si è trasferita verso destra per far posto al magnifico giardino verdeggiante nel quale il pittore raffigura la città di Nazareth virtualizzandola nelle semplici macchie bianche e rosse in esso disseminate. Alberto Magno, dottore della Chiesa, per esplicitare tale simbologia, crea un collegamento tra “Nazareth” e la parola ebraica “nēsér”, che viene tradotta con flos, fiore. Questo giardino, però, ne virtualizza anche altri: tutte le tre grandi Annunciazioni dipinte dal Beato Angelico per pale d’altare, infatti, riservano la parte sinistra dell’immagine – quella “sbagliata”, la mancina – a un giardino. Esso è quello del Paradiso perduto, il luogo della caduta in cui Adamo ed Eva hanno fatto precipitare il genere umano. Ciò che si trova a sinistra, allora, è da interpretare come l’infelice origine dell’evento di incarnazione e di redenzione costituito dall’Annunciazione. La bordura che, nell’Annunciazione di San Marco, separa il portico dal giardino divide anche due luoghi del tempo. Il Beato Angelico lavora la superficie pittorica in modo da suggerire un insieme di correlazioni a cui, teologicamente, l’annunciazione deve evocare: relazione tra la caduta e la promessa di redenzione; tra l’angelo che scaccia Eva dal paradiso e l’angelo che si inchina dinanzi a una donna benedetta fra tutte le altre; tra il primo Adamo, punto di partenza di tutte le sventure, e il secondo, origine di tutte le felicità. Così come l’Avvento ci invita a guardare oltre e ci richiama all’Altro, tutta l’opera di fra’ Giovanni da Fiesole ci insegna che è nella bellezza – la Bellezza che salverà il mondo, come ci insegna Dostoevskij ne L’idiota – che si può scoprire e comprendere il progetto di un Dio che si prende cura dell’uomo e che accetta di incarnarsi nel grembo di una donna per farci conoscere la sola verità che ci può rendere liberi (Giovanni 8,31-32).