Siamo all’ultima domenica prima della “Settimana Autentica”, il nome che viene dato dalla nostra liturgia ambrosiana alla Settimana Santa. L’opera che ci aiuterà a meditare il celeberrimo episodio della resurrezione di Lazzaro è una tela della bottega di un pittore che non ha bisogno di grosse presentazioni: Pieter Paul Rubens.
Egli è il più importante pittore fiammingo del XVII secolo e figura centrale dell’arte barocca del Nord Europa. Nasce a Siegen, in Germania, nel 1577 ma la città di origine della famiglia è Anversa, dove si trasferirà nel 1587 e vi morirà nel 1640.
Dopo la formazione avvenuta tra Colonia e Anversa, nel 1600 Rubens arriva in Italia e vi rimane per otto anni, a eccezione di un viaggio in Spagna, tra il 1603 e il 1604, alla corte di Filippo II. A Venezia studia e copia opere di Tiziano, Veronese e Tintoretto riprendendo il gusto per le tonalità calde del colore e la ricchezza della materia; entrato in contatto con Vincenzo Gonzaga, diventa pittore di corte a Mantova, dove arricchisce la sua cultura figurativa in contatto con le opere di Giulio Romano; poi visita Parma, Milano e Genova, trasferendosi infine a Roma, dove ha modo di ampliare ulteriormente gli orizzonti della sua cultura figurativa studiando l’arte antica e copiando i modelli di Michelangelo, Raffaello e, soprattutto, Caravaggio a cui si ispira per il realismo delle sue opere. Risente poi anche dell’influenza di Federico Barocci, detto il Fiori, importante pittore dallo stile elegante, esponente del Manierismo italiano e dell’arte della Controriforma, e di Annibale Carracci, che conosce di persona. Grazie a Rubens anche in Italia trovano spazio le prime basi della pittura barocca.
Nel 1609 il pittore torna nelle Fiandre, a seguito della morte della madre, e non farà più ritorno in Italia. Ad Anversa diviene pittore di corte dei viceré spagnoli Alberto e Isabella, reggenti dei Paesi Bassi. A poco a poco lo stile dell’artista si modifica e le sue opere diventano più chiare, i toni cromatici più freddi e i personaggi vengono distribuiti in modo più simmetrico e armonioso.
L’arte di Rubens si esprime in modi vari e diversi perché oltre a dipinti che raffigurano paesaggi, ritratti, soggetti mitologici e sacri, la sua produzione artistica è ricca anche di illustrazioni, disegni per arazzi e decorazioni.
Quando la sua fama cresce sempre di più e le commissioni aumentano, per far fronte all’intensa attività, Rubens crea una propria bottega organizzata con criteri da piccola industria, dove utilizza un gran numero di collaboratori e allievi, ognuno esperto in singole specializzazioni.
Ecco, allora, che il quadro che oggi ci guiderà nella riflessione sul racconto della resurrezione di Lazzaro al capitolo 11 del Vangelo di Giovanni non esprime il solo stile del maestro ma unisce le influenze di coloro che per lui lavoravano e con lui imparavano l’arte della pittura. In piena atmosfera controriformistica, in quest’opera Rubens esprime la grandezza del potere politico e religioso con una pittura barocca grandiosa, magniloquente e trionfale nella composizione d’insieme. Come in molte delle sue opere, anche questa riproduce una scena affollata, dinamica e impetuosa: c’è molta teatralità. Utilizza colori vivi, intensi e brillanti; e violenti colpi di luce squarciano l’oscurità dello sfondo; i suoi corpi sono carnosi, sovrabbondanti ed esprimono benessere e prosperità.
Teniamoci allora bene in mente l’effetto luministico di questa tela, così come il gesto della mano di Gesù: torneremo più avanti a parlare di essi.
Partiamo dall’antefatto: minacciato di morte a Gerusalemme, Gesù lascia la città per recarsi «al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava» (Gv 10,40), nel luogo dove il Battista aveva pubblicamente fatto la sua professione di fede in lui come Figlio di Dio. E qui l’evangelista colloca una folla che, vedendo Cristo, riafferma come veritiera la testimonianza del Battista, così che «molti credettero in lui» (Gv 10,42). È netta la differenza con quel che succede a Gerusalemme, che appare chiaramente come il luogo dell’incredulità.
Qui, lontano dalla città santa dell’ebraismo, riceve la notizia della malattia di Lazzaro. È forte l’espressione che Giovanni usa nel suo Vangelo nei confronti dell’amico malato: al versetto 3 dice che si tratta di «colui che tu ami». Sono importanti i verbi usati per esprimere i sentimenti che legano Gesù a Lazzaro, Marta e Maria: non a caso sono ripetuti tre volte nel brano (vv. 3.5.36). La ripetizione – con il simbolismo del numero – sottolinea in pieno la profondità di questo legame affettivo. E, come nell’episodio del cieco nato, anche qui viene offerta a Gesù l’occasione per dimostrare che anche nel dolore della quotidianità si può rivelare la gloria di Dio.
Si incammina, allora, alla volta di Betania, pericolosamente vicina a Gerusalemme, dove i poteri forti lo volevano morto. Ma alle obiezioni dei discepoli il Maestro risponde con un altro parallelismo con l’episodio del cieco nato: come in quell’occasione, anche qui le ore del giorno rappresentano il tempo in cui Gesù, ancora vivo, deve operare nel mondo per portarvi la salvezza. Per questo, ma soprattutto per il grande affetto che lo lega all’amico, egli decide di incamminarsi rischiando la propria vita per donarla. Rubens ci mette del suo per sottolineare l’amore profondo di Gesù: sopra una tunica azzurra che si vede solo nel braccio destro che ha appena compiuto il miracolo (segno della sua divinità) lo veste con un lungo mantello rosso che lo ricopre fino ai piedi. È la sottolineatura della sua vera e profonda umanità: il pittore ci mostra così un Gesù che ama Lazzaro e che ama, con lui, ogni uomo che incontra. Ma c’è di più: siamo ormai sulla strada per Gerusalemme, e il rosso del mantello ci racconta di un Messia che per amore sta andando a morire sulla croce.
Colpisce alquanto che Gesù si rivolga a Lazzaro come a un qualcosa di vivente: «… è morto […]; ma andiamo da lui!» (vv. 14-15). Solo l’iniziativa di un Dio che è amore può cambiare ciò che nella vita sembra ineluttabile: sarà proprio il “risveglio” che Gesù vuole operare a permettere ai discepoli di credere in lui come a colui che dà la vita. E, allora, rivolgiamo la nostra attenzione alla mano di Gesù nella tela di Rubens: è un chiaro rimando alla mano di Dio nella creazione di Adamo della Cappella Sistina che Michelangelo aveva dipinto un secolo prima, quasi a voler sottolineare la bellezza di una “nuova creazione”, che – come il Padre onnipotente – ridona la vita a Lazzaro. È un uomo “nuovo”, quello che emerge dal sepolcro: il pittore fiammingo gli conferisce i tratti pieni e muscolosi di un eroe greco, per rimarcare la sovrabbondanza dell’amore gratuito di Dio.
Il “segno” (ricordiamo che nel Vangelo di Giovanni non si parla mai di miracoli) della resurrezione dell’amico diventa allora per Gesù occasione per suscitare fede nella sua persona, come naturale conseguenza del suo amore anche a rischio della propria vita: mira a suscitare una più profonda qualità di fede. In primis nelle due sorelle, che usano le stesse identiche parole («Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!»: vv. 2.32) quando incontrano il Maestro. Marta più pratica e attiva, che Rubens dipinge, a sinistra, nell’atto di aiutare il fratello risorto; Maria più riflessiva, che attende che Gesù la chiami per gettarsi poi ai sui piedi, dipinta appunto inginocchiata sulla destra con uno sguardo carico di amore e riconoscenza. Da una fede già non superficiale, che riconosce Gesù come il Signore (di nuovo un parallelismo con l’episodio del cieco nato), Giovanni – e con lui Rubens, grazie alla sua mano “creatrice” – ci dice che c’è bisogno di ulteriore salto, possibile solo insieme a Dio stesso, per sua iniziativa e con la sua spinta: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (vv. 25-26). È questa l’opportunità che Cristo offre non solo a Lazzaro e alle sue sorelle, ma a tutti i presenti e a ogni credente di ogni tempo. La sua salvezza può restituire la vita anche quando la morte è evento già accaduto. In chi crede che nella sua persona questa possibilità è presente e reale, la vita è già eterna.
Concludiamo ponendo l’accento sulle reazioni al “segno” di Gesù. L’evangelista sottolinea chiaramente che «molti dei Giudei […], alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.» (v. 45). Molti, non tutti! E l’odierna tela ce lo mostra con estrema chiarezza. Gli effetti luministici sono attentamente studiati: non Gesù – come spesso avviene – è illuminato, ma Lazzaro, Marta, il viso di Maria inginocchiata e un paio di presenti. Proprio per sottolineare che la luce della fede – nonostante un miracolo così grande – non raggiunge tutti; molti rimangono ancora nell’oscurità. Rubens dimostra qui di aver fatto tesoro della lezione caravaggesca. C’è un vero e proprio emergere dal buio al chiarore; ci sono diversi livelli di luce. C’è chi crede, illuminato in primo piano; c’è chi ancora discute, nella penombra dietro il braccio teso di Cristo; c’è, infine, chi è ancora nell’oscurità, alle spalle di Gesù. E sottolineiamo come il verbo greco usato da Giovanni per indicare come i giudei videro il segno (theorein) esprima non tanto la visione in mero senso fisico, ma la conoscenza: la fede di chi ha voluto vedere porta a un’adesione piena a Gesù. Quella che non riescono ad avere sacerdoti e farisei che, pur davanti all’evidenza dei segni, colgono solo il potenziale pericolo da lui rappresentato: chi non vuol vedere… Non c’è più posto per l’indecisione o la fede imperfetta, ora che il “segno” è stato posto.