Oggi, all’inizio della Settimana Autentica, la liturgia ricorda la trionfale entrata di Gesù in Gerusalemme. Tanti gli artisti che nei secoli si sono cimentati con questo episodio riportato da tutti e quattro gli evangelisti, con esperienze molto interessanti anche nell’arte contemporanea, a partire da L’entrata a Gerusalemme di Stanley Spencer del 1920.
Stanley Spencer nacque nel 1891; figlio di un insegnante di musica, fra il 1908 e il 1912 studiò alla “Slade School of Fine Arts” dell’University College di Londra, dove la sua abilità fu già evidente nelle prime opere. Poco dopo aver lasciato la scuola, divenne noto per i suoi primi dipinti raffiguranti scene bibliche ambientate a Cookham, piccola cittadina sulle rive del Tamigi, non lontana dal castello di Windsor, dove era nato e dove trascorse gran parte della sua vita. L’artista si riferì sempre al suo paese natio come a “un villaggio in Paradiso” e, nelle sue scene bibliche, i compaesani furono raffigurati come personaggi del Vangelo.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale si arruolò come volontario nei Royal Army Medical Corps e l’evento bellico segnò profondamente la sua esperienza sia umana che artistica. Tra il 1924 e il 1926 Spencer dipinse The Resurrection Cookham, definito da un critico d’arte del “Times” come «il più importante quadro dipinto da un artista inglese in questo secolo […] come se un preraffaelita avesse mescolato le mani con un cubista». Subito dopo ricevette il compito di realizzare una serie di dipinti in memoria di Henry Willoughby Sandham, morto in guerra. Il ciclo decorativo di diciannove dipinti, ispirati a scene di vita militare quotidiana della Prima guerra mondiale, fu inserito nella Sandham Memorial Chapel, realizzata secondo le indicazioni dello stesso Spencer e dipinta seguendo come modello la Cappella degli Scrovegni di Padova. Negli anni ’40 fu incaricato di dipingere gli operai al lavoro nei cantieri scozzesi: tale esperienza lo ispirò per una nuova serie di dipinti raffiguranti temi biblici inseriti nella vita quotidiana. Nel 1958 fu insignito del titolo di cavaliere dalla regina Elisabetta. Quando morì, nel 1959, fu cremato e le sue ceneri disperse di fronte al sagrato della chiesa di Cookham, dove è stato in seguito posto un memoriale di pietra con la seguente frase commemorativa: «Alla memoria di Stanley Spencer […]. Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio: chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore».
Tutta l’opera del pittore inglese è quindi legata a una profonda religiosità, che traspone gli accadimenti evangelici nel proprio tempo e nel proprio spazio: Cookham, l’amata cittadina natia, per tutta la vita protettivo paradiso terrestre intaccato solo dal disincanto della guerra. E anche L’entrata a Gerusalemme non sfugge a questa classificazione. Nell’osservarla si ha l’impressione di un incontro possibile, e, per chi crede, di una reincarnazione nel quotidiano. È ambientata fra le case di un quartiere nei sobborghi di Londra: Gesù avanza lentamente in groppa a un asino, con uno sguardo penetrante verso persone che al suo passare fuggono, che si allontano dalla sua presenza quasi spaventate, distogliendo volutamente il loro sguardo da quello di Cristo. Lo stesso giardino dipinto si presenta selvaggio e senza fiori, quasi a sottolineare il rifiuto dell’annuncio di salvezza che attraversa le loro vite. È un Messia che abita le case degli uomini, anche se, sullo sfondo di un’assolata periferia inglese, la Sua presenza non sembra destare l’interesse dei pochi abitanti del quartiere, in tutt’altre faccende affaccendati.
Con un linguaggio sintetico e bidimensionale come quello di Gauguin, geometrico sull’eco delle avanguardie, la pittura di Spencer diventa il mezzo allusivo alla trasposizione moderna dei fatti religiosi. Il luogo della vita di tutti i giorni accoglie straordinarie riletture della vita di Cristo in moderni travestimenti: al posto di ridenti aiuole Spencer dipinge una strada dalla prospettiva spezzata con gente resa con toni cromatici freddi, che risentono del dramma della guerra e dello stato d’animo ferito dell’artista e traducono i temi sacri secondo i pensieri cristiano-democratici degli ambienti laburisti frequentati al tempo dal pittore inglese.
Se tutti i Vangeli ricordano, con un assai ampio accordo, l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, l’evangelista Giovanni dà – come sempre – un suo particolare tocco: per due volte menziona Gesù come re Messia e sottolinea (v. 13) che la folla uscì per incontrarlo e acclamarlo. Ma quanto è diversa la sua regalità rispetto a quella che Israele si attende… Nel quarto Vangelo per ben sedici volte ricorre il titolo di re, ma dodici di queste citazioni sono concentrate nei capitoli della Passione, proprio per sottolineare che al di fuori di tale contesto non è possibile comprendere la regalità di Gesù. Come profetizzato da Zaccaria, Gesù si presenta come un re umile e pacifico: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra» (Zc 9,9-10). Ma la gente fatica a capire: vede in Gesù il compimento delle sue attese messianiche e lo osanna (applicando a colui che considerano l’inviato dal Padre a liberare il popolo d’Israele quella che era un’invocazione a Dio – trascrizione dall’ebraico “hoshi’à na” – perché custodisse e salvasse i pellegrini che salivano al tempio), portandolo in trionfo. Si aspettano che sia lui il liberatore politico che caccerà l’occupante romano; ignorano, invece, che colui che acclamano è in cammino verso la sua Passione, verso la croce.
Gesù non rifiuta le categorie di Messia e di re, ma le rinnova profondamente inserendovi significati inaspettati e sconvolgenti, capovolgendole. Ma l’invito al credente è di aprire gli occhi per accorgersi che la vera regalità è proprio quella che Lui ci presenta: non è Gesù che la rovescia, ma il mondo. Non si può – ci vogliono dire gli evangelisti – comprendere la messianicità di Cristo nel suo giusto significato se non si è disposti a lasciar cadere le proprie convinzioni, per accogliere – come ha fatto la donna samaritana di cui abbiamo parlato in questa Quaresima – un Dio che ama l’uomo tout court e che lo vuole liberare dal suo male più profondo, dal peccato e dall’egoismo. Fino ad arrivare allo scandalo della croce, simbolo potentissimo dell’onnipotenza di un Dio che ci insegna, con il suo esempio, il vero significato dei comandamenti (cfr Mt 22,37-39): la dimensione verticale della croce ci rimanda al primo («Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente»); così come la dimensione orizzontale delle braccia spalancate di Cristo che tutti vogliono accogliere ci ricordano il secondo («Amerai il tuo prossimo come te stesso»).
La folla, dicevamo, non comprende Gesù, non vuole uscire dai propri schemi precostituiti per una vera conversione del cuore. E quella stessa folla che lo sta ora acclamando come re Messia sarà quella che, fra pochi giorni, griderà «Crocifiggilo!» (Mc 15,13-14). È quello che ci vuol dire Spencer ne L’entrata a Gerusalemme: Cristo è incompreso e, pur essendo circondato da una folla osannante, è profondamente solo. Ma è Dio che, nonostante tutto questo continua a camminare al nostro fianco.
La prima cosa che viene in mente dinanzi a questo quadro è che Cristo è uno di noi. In fondo, è la stessa cosa che, oltre sette secoli fa, dissero i contemporanei di Giotto dinanzi agli affreschi della Cappella degli Scrovegni. C’è, tuttavia, qualcosa di più. «Non sarai nessuno se non amerai te stesso, non giungerai a Dio se non arriverai prima al tuo corpo»: così scrive Saramago – che sicuramente conosceva Spencer – ne Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991). È quello che troviamo nei dipinti del pittore inglese, dove Cristo sembra l’unico consapevole di se stesso e della sua corporeità, mentre il resto del mondo si muove svagatamente: i ragazzi giocano, le persone corrono indaffarate, gli apostoli parlano tra loro. Tutti paiono come marionette senza cervello ma con il cuore che li spinge a vivere, amare, piangere, ridere. È solo Cristo che tiene il filo dei loro pensieri. Il Cristo di Spencer sembra proprio quel qualcuno: è serio giudice nella gara di corsa tra un ragazzo e una ragazza; è Dio vero uomo parte del mondo che è parte di lui; è minatore, disoccupato, ubriaco, ladro, padre, ma anche madre, donna picchiata, figlia abbandonata, prostituta, tossica; è abitante dei ghetti delle periferie di tutto il mondo, luoghi dove il tempo non passa mai e dove la storia nemmeno sfiora la vita di chi li abita, dove quei pochissimi momenti di felicità sono puri e cristallini come le risate degli angeli.
È un Cristo che, anche davanti alla nostra pochezza, alle nostre disillusioni e ai nostri tradimenti, continua ad abitare la nostra quotidianità per convertire il nostro cuore e aprire i nostri occhi. Ecco perché Giovanni conclude l’odierno brano affermando che «i suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte» (Gv 12,16). La storia di Gesù si comprende solo dopo la Resurrezione e alla sua luce. Come per i discepoli, allora, “ricordare” deve significare capire ora, pienamente e in profondità, un fatto accaduto precedentemente. Per capire Gesù occorre attendere la sua Croce e la sua Resurrezione.