L’Ecce homo di Antonello da Messina, conservato presso il collegio Alberoni di Piacenza – una delle molte versioni dello stesso soggetto dipinte dal maestro siciliano –, ci aiuta a riflettere, in questo venerdì santo, su Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.
Preziosissimo capolavoro, tra i più intensi e drammatici di uno dei maggiori artisti della pittura occidentale, la tavola è la vera perla del lascito del cardinale Giulio Alberoni (1664-1752) al Collegio da lui fondato a Piacenza. Continuamente sperimentando e ricercando esempi iconografici propri anche della pittura fiamminga, Antonello da Messina contribuì in modo determinante a rinnovare i modelli della rappresentazione devozionale. La composizione fu più volte replicata dal maestro: rispetto a quelle di New York (collezione privata e Metropolitan Museum of Art) e di Genova (Palazzo Spinola), la versione di Piacenza è senza dubbio la più risolta, per la matura sicurezza dell’impostazione spaziale e la sapiente gradazione degli effetti luminosi. In questo dipinto, così come nella successiva versione oggi conservata al Louvre, Antonello sembra aver definitivamente conquistato quella stupefacente sintesi tra il realismo fiammingo e la visione plastico-prospettica tipica della civiltà figurativa italiana.
Siamo al termine del brano evangelico nel quale Ponzio Pilato, governatore romano della Giudea, mostra Gesù al popolo dopo la flagellazione. «Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: “Ecco l’uomo!”» (Gv 19,5). Il soggetto dipinto risulta essere così l’incontro tra il tema religioso dell’Ecce homo con quello del Cristo alla colonna della flagellazione. Sul cartiglio posto sul parapetto – che rimanda a modelli fiamminghi – il dipinto reca la firma dell’artista e la data d’esecuzione: «1473 [1475, secondo alcuni] Antonellus Messaneus me pinxit». Il soggetto è caratterizzato da una ripresa ravvicinata che conferisce alla rappresentazione una forte carica ricca di pathos e drammaticità. Anche la tecnica impiegata dall’artista appare estremamente sofisticata. Il supporto è una tavoletta in legno di rovere, di circa 5-6 mm di spessore, con la fibra disposta in senso verticale. Il sottilissimo strato di preparazione (una mestica di gesso, colla e medium oleoso), di colore ocra molto chiaro, è stato applicato direttamente sulla tavola, interponendovi, forse, solo una leggera mano di colla. La pellicola pittorica, realizzata a olio, è sottilissima, e l’esecuzione è di un’estrema finezza tecnica, a velature di colore trasparenti, dai toni caldi, senza che sulla superficie si legga alcuna traccia della pennellata. L’effetto complessivo è quello di una miracolosa verità ottica e luminosa.
Sull’intera superficie domina il bruno dello sfondo e l’incarnato chiaro di Cristo crea con esso un forte contrasto di luminosità. La luce crea leggere ombre a sinistra del volto e del corpo di Gesù e mette in evidenza il contrasto tra il colore quasi bianco della corona di spine e il bruno dei capelli.
Nelle ore che precedono la sua morte in croce, il Dio incarnato, Colui che ha scelto di condividere la nostra natura umana, vive pienamente e consapevolmente l’esperienza del dolore, l’alterità dell’uomo. Se, come scrive Ippolito di Roma, teologo e martire, vissuto a cavallo tra la fine del II e l’inizio del III secolo (fu, per la cronaca, il primo antipapa della storia della Chiesa), «Noi sappiamo che il Verbo si è fatto uomo, della nostra stessa pasta (uomo come noi siamo uomini!)», Gesù di Nazaret ha concretizzato e reso visibile Dio nello spazio dell’umano, consentendoGli così di fare esperienza del mondo e permettendo altresì agli uomini di fare esperienza dell’alterità di Dio. «Ecco l’uomo!» (Gv 19,5), esclama Pilato presentando Gesù, sarcasticamente incoronato re d’Israele, al popolo di Gerusalemme, quel popolo che solo pochi giorni prima l’aveva acclamato Messia.
L’umanità – e, con essa, la corporeità – di Gesù di Nazaret diventa, allora, vero e proprio sacramento (nel suo pieno senso etimologico di “pegno”, “giuramento”) dell’amore totale ed eternamente fedele di Dio per gli uomini. Tutta la sua vicenda umana, con le sue parole intrise di tenerezza, le invettive profetiche, i ruvidi rimproveri ai discepoli, ma anche con gli abbracci e gli sguardi, la stanchezza e la forza, la debolezza e il pianto, le emozioni, i gesti, la gioia, i silenzi della solitudine, con le sue relazioni e i suoi incontri, con la totale libertà di chi è fedele – sempre – alla Verità, tutto è manifestazione della vera e profonda umanità di Gesù che i Vangeli ci fanno intravedere. Sono riflessi luminosi che consentono all’uomo di contemplare qualcosa della luce divina.
È l’umanità di Gesù che narra l’alterità e la trascendenza di Dio, è il suo essere uomo che apre a ognuno di noi una via per andare verso Dio. Perché – come lo stesso Gesù insegna – «chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,45); e ancora: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito […], è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Per questo motivo il cristianesimo esige che Gesù sia conosciuto attraverso la sua vita narrata e testimoniata nei Vangeli da parte di chi è stato coinvolto nella sua vicenda, i discepoli, divenuti «servi della Parola» (Lc 1,2). È allora fondamentale riconoscere la concreta esistenza umana di Gesù. Nell’uomo Gesù, Dio va incontro a uno svuotamento (quello che la teologia definisce kénosis). Come ci insegna Paolo nella sua lettera ai Filippesi, colui che era nella condizione di Dio si spoglia della sua uguaglianza con Dio (cfr Fil 2,6-7), così da far vedere null’altro che la sua umanità, un’umanità di servo che «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8).
Ecco allora l’insegnamento dell’Ecce homo di Antonello da Messina. La tavola raffigura Cristo legato alla colonna: è in posizione frontale e guarda verso di noi. È rappresentato a una distanza molto ravvicinata dal fronte del dipinto, così che l’osservatore abbia la sensazione di trovarsi a poca distanza da Gesù e di condividerne l’atmosfera intima e drammatica. Intorno alla fronte la corona di spine stringe i capelli e lacera la pelle. Dalle spine scendono sottili rivoli di sangue e intorno al collo è fissato il cappio di una corda. Il volto ha un’espressione di grande sofferenza, sottolineata dalle sopracciglia aggrottate e dalle labbra rivolte in basso. Lo sfondo è scuro e privo di dettagli, proprio perché il pittore vuole che tutta la nostra attenzione sia rivolta alla sofferenza dell’uomo Gesù. Sì, Gesù ha vissuto la sua esistenza terrena quale uomo povero e fragile, proprio come gli uomini con cui entrava in relazione; il Figlio è entrato nella storia come uomo – pienamente uomo – capace di fare della sua vita un capolavoro d’amore.
In un suo articolo, il teologo Pierangelo Sequeri sottolinea la bellezza dell’Uomo del dipinto: Gesù è gradevole, ben fatto; così che la devastazione che ne umilia il volto è, per contrasto, ancora più stridente.
L’antica profezia di Isaia ne aveva tracciato il profilo: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze» (Isaia, 49,4). Qui, il pittore siciliano osa quello che nel Quattrocento è l’inosabile, dipingendo l’icona di Gesù con questa espressione. La nuda esposizione di questo sguardo irrimediabilmente umiliato e offeso è al limite del religiosamente accettabile. Siamo nel punto più basso della congiunzione solidale del Figlio con l’umano, alla consacrazione dell’Uomo dei dolori quale simbolo della condizione umana.
L’immedesimazione del divino con l’avvilimento dell’umano è totale. L’incarnazione del Figlio non si sottrae alla splendida forma dell’umano, né la rinnega. Noi però non possiamo, al cospetto di questo Ecce Homo, assuefarci a questo avvilimento: l’intensità con la quale questo sguardo resiste nondimeno sull’orlo del suo svuotamento ce lo impedirebbe; e ce lo impone la struggente domanda (implorazione? denuncia? provocazione?) in cui questo stesso sguardo ci coinvolge. Impossibile rimuovere l’evidenza di un domandare dell’Uomo che – persino in quel punto – non cede alla rassegnazione. Lo sguardo che si fa qui enigmaticamente provocazione e domanda – invano ho faticato? – vive nell’invenzione prodigiosa di un solo tratto, intorno al quale si dispone l’intensità singolare dell’intera figura: la curva delle labbra verso il basso. L’accoratezza dell’implorazione che sottolinea l’audacia inspiegabile dell’abisso di umana immedesimazione del Figlio è non può che coinvolgerci emotivamente.
E, allora, la risposta a questo dipinto non può che essere la fede, atto umano, esercizio vitale di libertà di tutta la nostra persona; atto che implica l’entrare in una relazione che avviene e si snoda nel tempo. Essa è innanzitutto fiducia, nella vita e negli altri. Fiducia nell’umano che è in ogni uomo e in cui consiste l’immagine e la somiglianza con Dio. Umano che, come immagine di Dio nell’uomo, è dono; e che, come somiglianza con Lui, diventa responsabilità di ogni credente. È compito nuovo e antico al tempo stesso: raccontare Dio agli esseri umani attraverso una pratica di umanità improntata all’umanità di Gesù di Nazaret.