La liturgia ambrosiana ci pone oggi davanti all’incontro tra Gesù e la donna samaritana narrato al capitolo 4 del Vangelo di Giovanni. Ci facciamo aiutare, nella nostra riflessione, da un dipinto di Annibale Carracci, custodito nella nostra Pinacoteca Ambrosiana.
Nato a Bologna nel 1560, probabilmente in una famiglia di artisti, Carracci vi fece il primo apprendistato. Lo stanco ripetersi di schemi manieristici alla fine del Cinquecento genera insofferenza da parte di alcuni giovani artisti che in un breve volgere di anni diventano protagonisti di una radicale riforma della pittura. Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, da una parte e i tre Carracci – Ludovico che era il più anziano e i suoi cugini Agostino e Annibale – dall’altra, partono da una matrice culturale comune per approdare a un rinnovamento profondo della cultura figurativa, abbandonando la strada del virtuosismo e dell’artificio per tornare alla natura e restituire verosimiglianza alle storie narrate, portando così al definitivo tramonto della lunga stagione manieristica.
Nel 1582, i tre Carracci fondano uno studio di pittori chiamato inizialmente l’Accademia dei Desiderosi e poi degli Incamminati. Era un’accademia “privata” di carattere profondamente diverso da quello delle istituzioni “pubbliche” dove avveniva l’enunciazione di principi teorici e normativi. Essa era una scuola legata alla pratica di bottega ma con la proposizione di modelli che consentissero di ritornare al “vero naturale”, recuperato sia mediante un più stretto contatto con la realtà quotidiana sia attraverso lo studio e la rimeditazione della tradizione rinascimentale. Alla luce di tutto questo, il disegno torna a essere lo strumento principale di indagine sulla realtà e il fondamento di un nuovo modo di dipingere che ripudia bizzarrie e complessità senza rinunciare alla grandiosità e all’eloquenza delle composizioni e punta sempre di più alla diretta comprensibilità e verosimiglianza delle immagini.
Tra il 1588 e il 1590 i tre lavorarono agli affreschi di palazzo Magnani a Bologna. Subito dopo, però, Annibale venne mandato a Roma per decorare il piano nobile di Palazzo Farnese. In seguito lavorò in altri palazzi nobiliari di Roma, città dove morì nel 1609. Le tematiche di Annibale furono decisamente eclettiche: paesaggi, scene di genere, ritratti, autoritratti, scene religiose e mitologiche. Inoltre, fu uno dei primi pittori italiani a dipingere una tela in cui il paesaggio ha la priorità sulle figure. Il suo stile pittorico venne proseguito dal Domenichino, suo allievo prediletto.
Cristo e la Samaritana fu eseguito da Annibale nell’ambito di una più complessiva campagna decorativa per Palazzo Sampieri a Bologna, condotta tra il 1593 e il 1595. Nel 1811 il dipinto venne acquistato, con molte altre opere della Collezione Sampieri, dalla Pinacoteca di Brera. Cristo e la Samaritana, in particolare, rappresenta una notevole testimonianza dell’arte italiana a metà tra Rinascimento e Illuminismo, in quanto nasce dai dettami dell’Accademia degli Incamminati. Quest’ultima si basava sulle idee del Concilio di Trento, che chiedeva di usare le immagini per diffondere la fede.
Iniziamo l’analisi del brano evangelico. Le parole immediatamente precedenti l’odierna lettura – «… lasciò allora la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. Doveva perciò attraversare la Samaria» (Gv 4,3b-4) – già dicono molto. Per tornare in Galilea da Gerusalemme non era necessario passare per la Samaria, terra di nemici: la strada più piana e sicura sarebbe stata quella di risalire la valle del Giordano. Invece, il testo ci dice che Gesù “doveva” (édei) passare proprio per quella terra, “dovere” che esprime una necessità divina. Così come nelle tentazioni, anche qui Gesù si fa pienamente obbediente a Dio, accettando di incontrare anche chi era da considerare avversario ed empio; si fa samaritano tra i samaritani, sostando presso un pozzo, come – al contrario – il samaritano della parabola aveva sostato presso chi era stato percosso dai briganti (cfr Lc 10,33-35).
Tutto parte da un incontro casuale: «… affaticato per il viaggio» (v. 6) Gesù va a sedersi vicino al pozzo di Sicar. È stanco e assetato: vero uomo, sperimenta – come ognuno di noi – la fatica del vivere di ogni giorno. E lì giunge anche una donna la quale, forse a causa del suo comportamento immorale pubblicamente riconosciuto, è costretta a uscire per strada nell’ora del mezzogiorno, per non imbattersi in quanti la disprezzano. Ed è proprio in un momento come questo, nella semplice quotidianità, che avviene l’incontro che cambia la vita di questa donna e che diventa paradigma per quella conversione che Gesù richiede a ogni persona che incontra nel suo peregrinare.
L’incontro avviene faccia a faccia, e in esso Gesù supera tutte le barriere legalistiche di sesso, razza, nazionalità, religione e moralità. Non si doveva dare credito alle donne, a quei tempi; eppure Gesù va oltre gli schemi e con questa donna va dritto all’essenziale. Conosce il linguaggio femminile, quello dei sentimenti, della generosità, del desiderio. In questa donna il Maestro non cerca quel che è sbagliato, ma scorge le tracce di bene e le mette in luce. Da lui, la donna samaritana poteva aspettarsi solo disprezzo; egli invece si fa mendicante presso di lei, chiedendole da bere. Ecco la vera autorità vissuta da Gesù: la sua capacità – come indica il vocabolo latino auctoritas, che deriva dal verbo augere – di aumentare l’altro, di farlo crescere. Quale abbassamento, invece, in Gesù! È questo ciò che colpisce la donna e accende una dinamica relazionale, in un faccia a faccia cordiale, senza più barriere. Tra Gesù e la donna è caduto ogni muro di separazione, perché nessuno, mai, può essere escluso dall’amore di Dio.
La samaritana accetta di mettersi in gioco e da Gesù riceve in cambio una promessa straordinaria: «L’acqua di questo pozzo non disseta per sempre [così come la Legge di Mosè non disseta in modo definitivo], ma io dono un’acqua che diventa sorgente d’acqua zampillante, fonte inesauribile che dà acqua per la vita eterna» (vv. 13-14). A lei, che lo riconosce come Kýrios, come «Signore» (v. 15), Gesù annuncia l’inaudito, l’umanamente impossibile: c’è un’acqua – da Lui donata – la quale, anziché essere attinta dal pozzo, diventa fonte, acqua che sale dal profondo. Questa donna, alla fine, incontrando personalmente il Maestro e aprendo il suo cuore alla relazione con Lui, giunge a trovare dentro di sé una sorgente interiore: lo Spirito che Gesù effonde nei cuori di chi accetta di iniziare un serio cammino di conversione alla luce della “buona notizia” del Vangelo.
L’incontro umanissimo col Maestro ha, quindi, trasformato questa donna in una creatura nuova, rendendola testimone ed evangelizzatrice. Ecco allora perché, lasciata la sua anfora (v. 28) – gesto che dice più di tante parole! –, corre in città a testimoniare quanto le è accaduto. Qualcosa di decisivo è avvenuto nella sua vita, e ciò ha provocato in lei un mutamento, una conversione. A chi incontra suggerisce un’interpretazione: “Che sia lui il Messia?”. Non impone una verità espressa in termini rigidi, ma propone una lettura che permetterà loro di fare una scelta nella libertà, mossi dall’amore. Suggerisce più che concludere, e così accende il desiderio dell’incontro. «La fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10,17), ci insegna l’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani: è proprio dall’ascolto di Gesù è nata la fede della samaritana; è, poi, dall’ascolto della samaritana che è nata la fede della sua gente. E dalla fede procede la conoscenza, dalla conoscenza l’amore: questo è l’evento cristiano, mirabilmente riassunto nell’incontro di due persone assetate!
Ecco, allora, come il Carracci traduce in immagini quello che Giovanni ci dice nel brano evangelico. Al centro abbiamo proprio la donna samaritana, illuminata dalla luce di Cristo. È ormai vinta dalle rivelazioni di un Gesù che con la mano destra sul petto allude a se stesso come il Messia, mentre con la sinistra indica la città, per mostrare un nuovo cammino alla donna ormai trasformata in evangelizzatrice, in apostola: quello di diffondere la notizia di un incontro e dell’amore fedele di un Dio che sa andare oltre ogni possibile barriera che noi uomini costruiamo nelle nostre vite.
Tutto il resto è in penombra: l’apostolo sulla sinistra, che torna da Sicar con il cibo; quelli dietro al pozzo, che «si meravigliavano che parlasse con una donna» (v. 27). Apostoli che stanno, sì, seguendo Cristo, ma che ancora non hanno pienamente percorso il cammino di conoscenza di Gesù; quello che, invece, il Maestro ha fatto compiere a una semplice donna samaritana, una nemica, una peccatrice: ciascuno di noi in fondo. C’è una vera e propria pedagogia della fede nel brano giovanneo, magistralmente tradotta in colori e immagini dal pittore bolognese, che sa cogliere con estrema maestria il momento topico del racconto evangelico.
«La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città …» (v. 28): essa è cambiata, ha lasciato che Gesù convertisse il suo cuore, accettando di entrare in relazione piena con Lui, che ha così colmato la sua sete, sia fisica che spirituale, simbolizzata proprio da quell’anfora ormai abbandonata.
In un delicatissimo gioco di sguardi, il Carracci riassume questa nuova consapevolezza della samaritana. Come nell’incontro con l’uomo ricco nel Vangelo di Marco (cfr Mc 10,21) Gesù fissa lo sguardo sulla donna e la ama. Lei risponde, pudica quasi, abbassando lo sguardo e chinando la testa nell’accettazione di un amore che comprende e che perdona. E si alza, decisa, perché il riconoscimento di Gesù come Messia e Salvatore, le ha fatto capire che esso deve ora diventare conoscenza degli altri, attraverso gli incontri con altre persone. L’incontro al pozzo l’ha istruita sull’arte dell’incontro con l’altro quale via attraverso la quale ognuno di noi può arrivare a conoscere Gesù. Forte dell’acqua di vita ricevuta, forte della luce su di lei irradiata dal Maestro, parte – rinnovata e convertita – per diventare lei stessa acqua e luce.
Gli strumenti di cui ci dota il Signore non hanno l’irruenza dell’assalto, ma la delicatezza di chi propone, nel silenzio, nella modestia, nel nascondimento… È il linguaggio delle beatitudini (cfr Mt 5,13-16): come il sale che si poggia sul cibo per dare sapore, come la luce che si cala sulla superficie delle cose per farne apparire le fattezze, la vita di questa donna – e, con lei, di ognuno di noi – prende ora un sapore nuovo e una direzione nuova. Il cuore di questa donna diventa sorgente zampillante. È questa la splendida promessa di Gesù alla Samaritana e, di conseguenza, a tutta l’umanità: desiderare. Cristo chiede alla donna, al pozzo, di rendersi conto del proprio desiderio, grande, infinito, bello. Un desiderio di pienezza – sottolineato dall’immagine della sete –, che appare così difficile da trovare nella sfida quotidiana di vivere. Dietro l’immagine c’è il rito battesimale, che diventa vero quando esprime la reale scelta del battezzato di riconoscere Gesù come Signore della propria vita.