In questa terza domenica di Quaresima siamo chiamati a riflettere sulle parole che Gesù rivolge a un gruppo di Giudei, per cercare di portarli al riconoscimento della verità. Ci facciamo allora aiutare da un dipinto che mostra un altro episodio evangelico che ritrae Gesù davanti a Pilato.
I dati biografici di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, sono scarni. Nasce a Venezia presumibilmente nel 1519 (o verso la fine del 1518): il suo atto di battesimo andò perduto nell’incendio degli archivi di San Polo e, quindi, la data della sua nascita la si può desumere solo dal suo atto di morte. La sua vita scorre interamente nella Serenissima e registra come unico evento caratterizzante la sua ascesa sociale: da figlio di un artigiano (un tintore, da cui il soprannome) a pittore di grande fama. Il periodo della sua formazione si conclude entro il maggio del 1539, quando in un documento si firma già come “maestro”, essendo anche in possesso di una propria bottega.
Tintoretto è di una generazione più giovane di Tiziano e assiste, fin dagli esordi, al propagarsi del nuovo linguaggio figurativo importato in laguna dagli artisti via via approdati a Venezia dall’Italia centrale e dall’Emilia. La sua formazione include la conoscenza della tradizione locale, incarnata in quel momento principalmente da Tiziano, e lo studio delle sculture di Michelangelo, di Sansovino e degli antichi. Tintoretto acquisisce in tal modo un forte senso plastico-monumentale che si lega alla sua propensione luministica di intonazione drammatica e a un accentuato interesse per gli effetti teatrali.
È con il Miracolo di San Marco (ora alle Gallerie dell’Accademia di Venezia) che balza improvvisamente alla ribalta e la sua fama giunge addirittura a preoccupare Tiziano, fino a quel momento unico dominatore della scena pittorica veneziana. Nonostante venga chiamato, insieme ad altri artisti veneti del tempo, per la ridecorazione delle sale di Palazzo Ducale, devastate da due grossi incendi, al centro della sua attività saranno i cicli della Sala Grande e della Sala Inferiore della Scuola di San Rocco nei quali si colloca anche Cristo davanti a Pilato, realizzato tra il 1566 e il 1567.
«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). Così Gesù inizia il suo discorso per dei “Giudei che gli avevano creduto”. È gente che già ha fatto qualche passo nella fede (come ognuno di noi, in fondo), ma che, proprio come noi, per conoscere il Maestro ha bisogno di continuare ad ascoltare la sua Parola. Sono credenti sbagliati, che subito, quando si sentono dire «la verità vi farà liberi», rispondono risentiti: «Non siamo mai stati schiavi di nessuno». Sono convinti – e quante volte noi con loro! – di conoscere già la verità e di essere già liberi. Ma la libertà di Gesù è diversa.
Le affermazioni di Gesù sono interamente finalizzate alla libertà dell’uomo. I verbi sono al futuro (conoscerete…, vi farà…) per indicarci che la libertà è un punto d’arrivo, che deve segnare uno stacco tra un prima (una vita nel peccato e nella schiavitù) e un dopo (una vita nella verità e nella libertà, dopo una decisione di conversione). Ma c’è un cammino da fare, che il Maestro ci indica con chiarezza.
«Se rimanete nella mia parola»: la libertà evangelica si radica nella Parola di Gesù, nella sua rivelazione. La libertà, dunque, è dono, non qualcosa che l’uomo raggiunge da sé. È solo l’incontro con Cristo che svela all’uomo la natura, l’ampiezza e la profondità della libertà a cui è chiamato. Gesù dice «se rimanete», perché la libertà esige proprio un rimanere, una sorta di immobilità, che a molti di noi potrebbe sembrare il contrario della libertà, spesso basata sulla possibilità di un continuo cambiamento. Non è così: la libertà evangelica esige la fedeltà, radicata sulla sua Parola, sull’euanghélion, la lieta notizia che è Gesù.
E poi: «siete davvero miei discepoli». Per essere liberi bisogna essere veri discepoli; bisogna che la nostra libertà viva in una dipendenza e in un’appartenenza. È davvero paradossale la libertà evangelica!
«Conoscerete la verità»: ecco il primo verbo al futuro, la fine di un cammino; il verbo che, nel linguaggio biblico significa possesso (cfr Gen 4,1). Conoscere vuol dire accogliere dentro di noi, radicare in noi, sperimentare nella quotidianità, vivere. È in questa totalità di appartenenza che si trova la vera libertà.
Infine: «la verità vi farà liberi». Ciò che rende liberi è solo la verità. Ma quale verità? Nel Vangelo di Giovanni è l’obbedienza a Dio, il dono di sé. È questa la verità che ci trasforma, liberandoci da tutte le nostre idolatrie. Per essere davvero se stesso – solo questa è la vera libertà – l’uomo deve appartenere a Dio.
Eccoci allora al dipinto che ci aiuterà a riflettere su questa frase di Gesù. Facciamo un salto in avanti: siamo al capitolo 18 del Vangelo di Giovanni, alla fine dell’incontro tra Gesù e Pilato, che sta ormai ratificando la condanna a morte del Maestro. Tutto questo dopo avergli chiesto per due volte «Sei tu il re dei Giudei?» (v. 33) e «Dunque tu sei re?» (v. 37a). Gesù risponde «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (v. 37b). Di nuovo la stessa sottolineatura dell’odierno brano di Giovanni: l’insistenza nel correlare l’ascolto della sua Parola con la conoscenza della verità; e, di nuovo, la conoscenza che, con quella preposizione – “dalla” – usata dall’evangelista diventa profonda appartenenza a una verità accolta, radicata, sperimentata e vissuta. E Pilato chiude il dialogo, prima di lavarsene le mani e lasciare Gesù ai suoi aguzzini chiedendo: «Che cos’è la verità?» (v. 38). Ma questa domanda è, in presenza della verità stessa, un sottrarsi alla verità. È priva di impegno, quasi distratta, come dimostra il suo rapido passare oltre: Gesù non gli risponde, perché non serve. La verità è Lui stesso, che Pilato vede ma non vuole riconoscere.
Ecco allora il bellissimo dipinto del Tintoretto. La scena si svolge nel loggiato del Pretorio: Cristo e Pilato sono l’uno di fronte all’altro su quello che sembra essere un trono rialzato rispetto alla folla che assiste alla scena. I contrasti chiaroscurali sono molto accentuati e la luce, che entra da alcune finestre poste al di fuori dello spazio pittorico, invade la scena e focalizza l’attenzione dello spettatore sulla figura di Gesù mettendola in tal modo in risalto quale vero protagonista del dipinto. Qui, Tintoretto enfatizza, con straordinaria forza, la luminosità irradiata da Cristo, unica figura che riprende la verticalità del colonnato, contrapposta all’ondulata dinamicità di tutti gli altri personaggi, che così ne sottolinea il vigore spirituale.
In piedi di fronte a Pilato, con le mani e i piedi legati, Cristo indossa una veste bianca: alcuni esegeti propongono di leggerla quale presa in giro della presunta regalità di Gesù, in quanto abiti di quel colore erano destinati ai folli; altri, invece, la presentano come simbolo di purezza dell’innocente ingiustamente condannato. Nel mentre, un servo versa dell’acqua sulle mani di Pilato perché se le possa lavare e lui, ormai disinteressato – dopo quell’ultima distratta domanda: «Che cos’è la verità?» – della sorte di Gesù, volta la testa e distoglie lo sguardo. Tintoretto vuole proprio che lo spettatore si soffermi a guardare la posa di Pilato e che rifletta su ciò che sta vedendo: Cristo era stato portato dinnanzi al procuratore romano con l’accusa di essersi autoproclamato re di un regno che però non era sulla terra ma in cielo. In Pilato queste parole scatenano confusione e turbamento, ma non riescono, alla fine, a provocarne la libertà per far sì che l’incontro con Cristo possa far scattare la molla della conversione. Prigioniero delle sue schiavitù Pilato non è veramente libero e non può far altro che suggellare una vita vissuta nella logica del potere e del dominio. Tintoretto, allora, lo rappresenta mentre guarda altrove, per sottolineare la sua incapacità di riconoscere chi ha davanti: la Verità, quella di cui si interroga ma che presume di possedere già. Per enfatizzare questo concetto, in basso, accanto al trono, viene rappresentato un vecchio che, con penna e pergamena in mano, sembra voler lasciare testimonianza scritta di ciò che sta accadendo, ma il libro è chiuso e la punta del suo stilo nemmeno lo tocca. Il pittore veneziano sottolinea poi l’atteggiamento sterile e vigliacco del procuratore romano: le sue mani, pur lavate, restano nere, “sporche”, proprio a evidenziare che, se non ci assume la responsabilità delle proprie scelte, la colpa resta. Gesù, invece, è in piedi, ritto, senza esitazione alcuna, coerente con se stesso, Verità nell’obbedienza al Padre, che offrirà la propria vita sulla croce, messa in luce dal Tintoretto attraverso il drappo rosso che si erge sullo sfondo della folla che ha appena preferito Barabba.
Gesù insiste sulla libertà da riconquistare. L’essere veramente suoi discepoli e il conoscere la verità sono finalizzati a una libertà che va accolta come dono. La fedeltà che si vive nel discepolato, in una dipendenza totale, e la verità che va accolta dentro di sé vanno sperimentate e vissute. Lo spazio della libertà – sottolineano Giovanni, nel suo Vangelo, e Tintoretto, nel ritrarre la dignità di Gesù totalmente libero – è l’obbedienza a Dio. Non, però, quella del servo, ma l’obbedienza del figlio (come dice Gesù nel prosieguo dell’odierno brano evangelico: vv. 35-36). Paradossalmente, è l’obbedienza la categoria che più ci mostra la natura della libertà di figli di Dio. È la libertà di Gesù stesso: che non ha detto parole sue, ma parole del Padre, parole ascoltate; che non ha compiuto opere sue, ma quelle del Padre; che è l’immagine del Padre («Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato»: Gv 12,44-45). E così anche noi, se vogliamo dirci – nell’esercizio della nostra libertà – suoi discepoli: noi che siamo sua “immagine”. La verità che fa liberi è, per Giovanni, l’amore, come scrive anche nel prologo del suo Vangelo («E il Verbo si fece carne … pieno di grazia e di verità […] la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo»): senza il dono di sé non c’è né verità né libertà. E questa libertà esige profonda conversione: non solo il coraggio di viverla, ma la conversione per comprenderla.