Lasciamoci introdurre al tempo di Quaresima dal brano delle tentazioni – tratto dal Vangelo di Matteo – e dall’intenso dipinto di un artista russo ai più, purtroppo, sconosciuto.
Nato nel 1837 da una povera famiglia piccolo borghesee, Ivan Nikolaevič Kramskoj studiò all’Accademia Imperiale d’Arte di San Pietroburgo fino al 1863; in seguito, si oppose all’arte accademica e fu uno degli iniziatori, con altri giovani artisti, di una rivolta che finì con la sua espulsione dall’ateneo stesso.
Abbracciando idee democratiche, Kramskoj fece valere i principi del realismo e della sostanza morale nell’arte. Divenne uno dei fondatori del gruppo dei Peredvižniki (Itineranti o Ambulanti) che aveva l’obiettivo di far uscire l’arte dai grandi centri urbani per diffonderla nelle campagne, con la speranza di elevare socialmente il popolo educandolo all’estetica. Tra il 1863 e il 1868 insegnò pubblicamente in una scuola di disegno.
Legato a filo doppio con la tradizione e le attese di riscatto del popolo russo, Kramskoj mise nei suoi quadri un mondo interiore pieno di compassione. Sostenuto da un grande senso del rispetto per l’uomo e alimentato dalle invincibili certezze della fede, fu capace di interpretare le caratteristiche psicologiche dei suoi soggetti e soprattutto la grande spiritualità del suo popolo. Il suo acuto giudizio critico fu essenziale per lo sviluppo dell’idea di arte democratica nella Russia dell’ultima parte del XIX secolo. Dipinse diversi ritratti di famosi scrittori, scienziati, artisti e personaggi pubblici russi.
Ed è proprio uno dei suoi più famosi dipinti – Cristo nel deserto, custodito in uno dei più bei musei di Mosca – che ci aiuta a entrare con il giusto spirito nel tempo di penitenza che ci porterà alla Pasqua di resurrezione.
In questa bellissima tela è evidente un fortissimo senso di trascendenza, suggerito dall’utilizzo di una singolare prospettiva, che combina con perizia una visione dal basso di Gesù, in primo piano, con una veduta panoramica dall’alto, trasmettendo così la chiara sensazione di trovarsi sulla cima di una montagna.
La figura di Cristo, con una tunica rossa e un mantello blu scuro (i colori dell’umanità e della divinità del Figlio di Dio), copre una grande porzione del quadro. È seduto, spossato e pensieroso, a causa delle prove e delle seduzioni diaboliche. Ha le mani nervosamente congiunte, che esprimono una fatica lunga e vera. Il suo sguardo è assorto, sembra guardare nel vuoto: pare la personificazione dello stesso desolato paesaggio che lo circonda. Siede su una grande pietra inospitale, una sorta di trono che rimanda alla vittoria finale sul principe della tentazione.
Nel suo Messaggio per la Quaresima 2006 Benedetto XVI scriveva: «Anche oggi lo “sguardo” commosso di Cristo non cessa di posarsi sugli uomini e sui popoli. Egli li guarda sapendo che il “progetto” divino ne prevede la chiamata alla salvezza». Ed è proprio il volto di Cristo quello che ci attira in modo particolare nel dipinto di Kramskoj. È un volto sofferente e pensoso, ma anche dolcemente “perso” nelle profondità dell’abbraccio del Padre; è il ritratto della prova e del combattimento interiore. Posiamo, allora, i nostri occhi sui suoi. I Vangeli sono sempre molto espliciti: gli occhi di Gesù dovevano essere davvero incantevoli, penetranti, magnetici quasi; tutti coloro che li incrociavano non se ne dimenticavano più. In quest’opera gli occhi sono rivolti verso terra o, meglio ancora, verso se stesso: per prepararsi al dono di sé sulla croce, Gesù deve affrontare, come uomo, le prove della vita, la solitudine, la paura di non farcela, la tentazione della fuga e dell’abbandono… Per questo il capolavoro di Kramskoj è un’opera di immenso valore: ci dice che il senso ultimo passa dal deserto.
Esaminiamolo, allora, questo deserto, il co-protagonista – insieme a Cristo – del dipinto.
Gesù è solo: personifica il paesaggio che lo circonda. È un Cristo fattosi deserto: l’essenzialità dell’ambiente roccioso avvolge Gesù. È con questo ambiente di pietre che Gesù deve fare i conti e dare priorità alla fame del Suo cuore. Ognuno di noi, in fondo, ha bisogno di vivere un po’ il deserto – nella preghiera e nella riflessione personale – per fare chiarezza dentro di sé e vivere il desiderio in quanto aspirazione all’infinito, ad andare oltre… Ed è proprio la visione dal basso, sulla cima del monte, che ci suggerisce il senso dell’eternità e della trascendenza: il pittore aveva ben presente la figura del profeta Elia sul monte di Dio, l’Oreb, una figura rappresentata spesso nelle icone russe.
Nella Redemptoris missio Giovanni Paolo II scriveva: «La tentazione oggi è di ridurre il cristianesimo a una sapienza meramente umana, quasi a una scienza del buon vivere. […] Noi invece sappiamo che Gesù è venuto a portare la salvezza integrale». È quello che esprimono le mani giunte di Gesù, intrecciate nella consapevolezza della supplica. Egli supera la tentazione affidandosi costantemente alla Parola di Dio: «Sta scritto…», replica, infatti, ogni volta al tentatore. Queste mani sono la trasposizione della fede dell’artista e del suo popolo, nonché un invito alla preghiera e alla piena fiducia in Dio.
È sufficiente anche solo una veloce occhiata a questo dipinto per intuire che alle spalle del pittore c’è un mondo segnato dalla prova e dalla fatica, come pure dalla pietà e dal senso della dignità umana che rinvia alle verità della nostra fede. Nella figura di Cristo troviamo tenacia e forza. Egli incarna l’immagine di chi è capace di affrontare le situazioni difficili della quotidianità. Riassume, in fondo, tutta la spiritualità russa, legata ai solenni riti della liturgia ortodossa e alimentata seguendo le stagioni della propria immensa terra.
Prima di questo quadro, Kramskoj aveva più volte ritratto i volti, provati dalla fatica ma sereni, dei contadini russi; egli condivide la spiritualità del suo contemporaneo Dostojevskij, le cui opere sono pervase dalla continua presenza della ricerca del senso ultimo della vita. Qui abbiamo a che fare con un uomo pienamente libero e consapevole della propria fragilità: Gesù è assorto e concentrato, libero e deciso, orientato a conformarsi alla volontà del Padre per una libera scelta personale.
Non sappiamo quale momento abbia voluto raffigurare il pittore; non sappiamo se le tentazioni siano già avvenute e Gesù si riposi dopo averle sconfitte, oppure se egli sia semplicemente stremato dalla fame, o se sia magari in preghiera, in attesa che il tentatore appaia. C’è solo la solitudine, per poter assaporare fino in fondo l’incontro con Dio. C’è la solitudine di un uomo che non viene capito dalle folle («… non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti»: Mc 1,45) e che cerca il deserto per “abbandonarsi” al Padre, per interiorizzare appieno l’amore totale, gratuito e straordinariamente sorprendente di un Dio che si fa uomo, che sceglie di camminare sulle strade dell’uomo e di condividerne speranze e angosce, gioie e fallimenti.
Sicuramente – come poi sulla croce, quando griderà forte il suo «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?» – sta combattendo, nel suo animo, contro una prima tentazione che nessuno degli evangelisti esplicitamente dichiara: quella di sottrarsi a questa prova durissima. Perché lui, il Figlio di Dio – sembra chiedersi e mostrarci Kramskoj – deve stare quaranta giorni nel deserto, solo, tentato da Satana? Luca usa un’espressione un po’ più edulcorata degli altri sinottici: «Gesù … era guidato dallo Spirito nel deserto» (Lc 4,1); Matteo, invece, in modo più incisivo, scrive, che «Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto» (Mt 4,1); Marco, infine, calca ancor più la mano dicendo che «lo Spirito lo sospinse nel deserto» (Mc 1,12). Quasi a voler sottolineare come Gesù non voglia subire questa prova, ma che alla fine, nell’obbedienza al Padre, finisca per accettarla. È, in questo, vero uomo; si mette a fianco di ognuno di noi, vivendo le nostre ansie, le nostre paure e le nostre angosce perché tutti noi vorremmo evitare le prove della vita, il male, le tentazioni, il dolore. Ma Gesù – volto di un Dio di amore («… chi vede me, vede colui che mi ha mandato»: Gv 12,45) – prende su di sé tutto questo, per sottolineare che il Padre misericordioso continua ad amarci sempre, continua a tenderci imperterrito, senza mai stancarsi, la mano – se la vogliamo prendere, nell’esercizio della nostra libertà – per sollevarci dai nostri mali, dalle nostre preoccupazioni, dal nostro peccato.
Un’ultima annotazione: l’orizzonte è illimitato. La meravigliosa luce dell’alba sullo sfondo è espressione della prospettiva di fede pasquale, qui anticipata da un Gesù fattosi deserto per incarnare il deserto del mondo e il suo anelito di liberazione. È l’alba di un nuovo giorno. La Quaresima è come l’inizio di un nuovo giorno, in attesa della nostra redenzione e in preparazione all’alba del mattino di Pasqua. La vittoria di Gesù sulla tentazione è garanzia della nostra, diceva san Leone Magno: «Egli ha combattuto perché noi combattessimo, egli ha vinto perché anche noi, come lui, potessimo vincere». Con la preghiera e l’abbandono alla volontà del Padre (Suo e nostro) le tentazioni saranno vinte e la vita sarà pienezza.