Siamo alla “domenica della luce”, con Gesù che ridona la vista a un uomo cieco dalla nascita, e veniamo aiutati da una tempera su tavola di Duccio di Buoninsegna.
Si suppone che Duccio sia nato a Siena poco dopo la metà del Duecento, forse intorno al 1255, da un Buoninsegna. Poco o punto si sa della sua formazione, svolta probabilmente sotto Cimabue, ma è quasi certo che ebbe a bottega Ambrogio Lorenzetti e Simone Martini. Alcuni documenti lasciano trasparire una personalità inquieta e ribelle. La critica recente preferisce pensare a Duccio come a un pittore molto concentrato sul suo lavoro, al punto di scegliere di pagare l’ammenda prevista piuttosto che prestare servizio come soldato in periodi di guerra abbandonando la sua arte. Il primo documento su Duccio è del 1278 e riferisce di un compenso per la pittura di dodici casse: esso accerta che in quella data l’artista doveva aver già raggiunto la maggiore età. Nel 1285 accettò la sua prima importante committenza, a Firenze, per una grande tavola; successivamente gli storici dell’arte ipotizzano soggiorni ad Assisi e Roma per spiegarne le influenze artistiche.
È tradizionalmente indicato come caposcuola della pittura senese. In origine, la sua arte ebbe una solida componente bizantina, visibile nei panneggi schematici e nell’uso dell’oro e di alcuni motivi iconografici, elementi derivanti dalla miniatura gotica e da una notevole conoscenza di Cimabue. Ma, nel periodo in cui questo e i suoi seguaci cercarono di rappresentare lo spazio tridimensionalmente e volumetricamente, Duccio cercò di focalizzare la sua attenzione sulla bellezza delle forme e delle linee e sull’armonia dei colori, utilizzando linee morbide e una raffinata gamma cromatica.
Con il tempo lo stile di Duccio raggiunse esiti di sempre maggiore naturalezza e seppe anche aggiornarsi alle innovazioni introdotte da Giotto, quali la resa dei chiaroscuri, seconda una o poche fonti di luce, la volumetria delle figure e del panneggio e la resa prospettica. Duccio è ricordato nei documenti fino alla metà del 1318, poco prima della morte avvenuta a Siena tra la fine di quello stesso anno e la metà del successivo.
Gesù ridona la vista al cieco nato è uno scomparto della predella che si trova sul retro della Maestà, capolavoro assoluto dell’artista, commissionatogli il 9 ottobre del 1308, terminato nel 1311 e portato il 9 giugno di quello stesso anno in solenne processione nel Duomo di Siena perché destinato a ornare l’altare maggiore. Il dipinto sul cieco nato si trova nella parte adibita alla visione del clero, dove erano rappresentate ventisei Storie della Passione e Resurrezione di Cristo divise in piccole formelle: questo è uno dei più ampli cicli dedicati a questo tema in Italia.
La formella presa in esame, realizzata come il resto dell’opera con la tecnica della tempera su tavola, fu acquistata nel 1883 a Firenze dal pittore pre-raffaellita Murray e oggi si trova alla National Gallery di Londra.
Davanti ad alcuni edifici con un’assai interessante struttura architettonica – con ampie arcate e torri merlate che richiamano un tipico ambiente cittadino del Medioevo – Duccio ci presenta un Gesù che è nel mezzo della scena. Trasportando Cristo in un paesaggio urbano italiano, il pittore attualizza l’episodio evangelico, facendo sì che lo spettatore possa sentirsi pienamente partecipe al miracolo. Gesù, il cui viso occupa l’esatto centro “geografico” della tavola, è vestito – come prevede l’iconografia medievale – con l’abito rosso e il mantello blu, simboli del suo essere vero uomo e vero Dio. Dopo aver sputato per terra, ha fatto un po’ di fango con la saliva e lo sta spalmando sugli occhi del cieco nato. Di fronte a Cristo c’è appunto quest’uomo – riconoscibile per avere tra le mani un bastone che gli serviva per aiutarsi negli spostamenti – al quale, fra poco, si apriranno gli occhi. Dietro di lui c’è un’altra figura, che dà le spalle a tutti gli altri personaggi, vestita con i medesimi abiti del cieco nato. Come fossero due fotogrammi consequenziali di un film Duccio ci presenta lo stesso uomo che, obbedendo al comando di Gesù di recarsi alla piscina di Siloe, si gira e, una volta riavuta la vista, guarda verso l’alto nell’atto di ringraziare Dio e getta via il bastone ormai diventato inutile. Duccio ha quindi voluto rappresentare in sequenza due momenti del miracolo narrato nei Vangeli di Marco, Luca e Giovanni, e non – come alcuni critici hanno sostenuto – i due ciechi di cui invece parla il capitolo 20 di Matteo. Alle spalle di Gesù, poi, troviamo i dodici Apostoli che formano un gruppo compatto. I loro volti mostrano espressioni incerte e dubbiose, tradendo così una certa “cecità” spirituale, così come si evince dalla loro domanda riportata dall’odierno brano evangelico: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» (Gv 9,2).
Proprio da qui partiamo per la nostra riflessione. Due sguardi si posano su «un uomo cieco dalla nascita» (v. 1): quello di Gesù, esplicitamente citato da Giovanni, e quello dei discepoli, sottinteso nella domanda che rivolgono al Maestro. Da una parte, quindi, l’uomo – ognuno di noi – che troppo spesso guarda le situazioni della vita altrui con distacco e indifferenza, come se il dolore o la sofferenza dei fratelli non lo toccasse: lo sguardo dei discepoli è rivolto al passato, con un’analisi che non risolve la situazione dell’uomo sofferente. Dall’altra parte, completamente diversa è la prospettiva di Gesù: vede l’uomo cieco e lo ama (così come è più volte detto nei Vangeli). Il Maestro non cede alla tentazione di rivolgersi al passato; preferisce, invece, guardare al futuro; preferisce soccorrere l’uomo, risollevarlo dalla sua prostrazione, incontrarlo nella sua difficoltà, soccorrerlo nella sua problematicità. Nella nostra vita, anche se segnata da dolore e sofferenza, Cristo è capace di manifestare la sua opera, la sua onnipotenza d’amore. È quello che ci mostra la tavola di Duccio: a differenza degli Apostoli, Lui non si perde in chiacchiere. Al centro della sua azione c’è l’uomo nella concreta situazione della sua esistenza, l’uomo che desidera la luce, ma che non riesce a vedere il chiarore della presenza del Signore nella sua vita. E lo guarisce con un atto semplice, che il pittore senese dipinge così simile a un gesto di benedizione. È un Dio – ci vuol dire Duccio – che sta dalla nostra parte, che “dice bene” di noi, che ci vuole aprire gli occhi perché noi si possa non solo guardare, ma anche vedere, non solo ascoltare, ma anche comprendere (cfr Mc 4,12).
Mandando il cieco nato alla piscina di Siloe, che significa inviato (v. 7), Gesù sottolinea il suo essere “inviato” per compiere le opere di Dio, e ciò è possibile «finché è giorno» (v. 5), quale luce che le tenebre non possono sopraffare (cfr Gv 1,5). Dette queste parole, compie un gesto terapeutico: sputa per terra, impasta della polvere con la sua saliva – simbolo dell’energia del suo Spirito – e la spalma sugli occhi del cieco, in una sequenza dinamica che mostra l’azione dell’Onnipotente sull’uomo, creato all’inizio del tempo a sua immagine e somiglianza e ora ricreato dalla potenza di Dio che rivive in Gesù. Quest’ultimo ripete il gesto con cui il Padre ha creato Adam, il terrestre, plasmandolo dalla polvere del suolo (cfr Gen 2,7). È gesto umanissimo: l’uomo non vedente si sente toccato da Gesù, sente le sue dita e il fango sui propri occhi, sente di poter riporre la propria fiducia in chi lo ha “visto” e lo ha riconosciuto come una persona nel bisogno.
È una nuova creazione, quella di Gesù, che compie il miracolo e poi scompare. Perché se da una parte sua è l’iniziativa, dall’altra c’è bisogno della docile accoglienza dell’uomo. È vero che la salvezza è dono totalmente gratuito di Dio (non richiesta né voluta, la guarigione è il segno di quanto Cristo abbia a cuore il nostro bene), che il primato, quindi, è della grazia, ma è altresì vero che c’è anche bisogno dell’esercizio della libertà da parte del cieco nato per scegliere la salvezza e accoglierla con consapevolezza. La guarigione è sempre un dono da accogliere con piena volontà e totale abbandono, non la si può imporre: «Colui che ti creò senza di te – insegna Agostino di Ippona – non ti salverà senza di te».
La guarigione è, allora, opera di Dio e dell’uomo; è sinergia tra l’iniziativa dell’Uno e l’obbedienza dell’altro. Dall’incontro con lo sguardo di Gesù e con la sua Parola efficace nasce un cammino che porta il cieco nato a mettersi in gioco, a sporcarsi le mani. È un cammino ascensionale il suo: in un primo incontro con i vicini, quelli che lo vedevano abitualmente mentre chiedeva la carità, racconta ciò che «l’uomo che si chiama Gesù» (v. 11) ha fatto e detto; a colloquio davanti ai farisei lo riconosce come profeta (v. 17) per poi affermare: «Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla» (v. 33); giunge infine alla verità: «Credo, Signore!» (v. 38).
Ecco l’approdo alla fede: Gesù, il «Figlio dell’uomo» (v. 35), è il Kýrios, il Signore. Ecco la luce che squarcia le tenebre, la luce vera che viene dall’alto, da Dio, come ci mostra Duccio nella sua opera, che fa alzare gli occhi al cieco nato al termine di un cammino che da sinistra, con la domanda dei discepoli rivolta al passato, attraversa tutta la tavola per arrivare al futuro, al compimento dello sguardo d’amore di Dio sull’uomo. Il cieco, allora, e con lui ciascuno di noi, ricevuta la luce getta via l’ormai inutile bastone per camminare con le proprie gambe sulle strade di Gerusalemme testimoniando l’amore di Dio.
Tu che sei la luce del mondo, illumina il nostro povero amore con la tua presenza, perché attraverso noi gli altri vedano te.