La cena in Emmaus: il brano che oggi commenteremo non ha bisogno di presentazione. E numerosissimi sono stati i pittori che si sono con esso cimentati. Basti ricordare – tra le tante opere – le due celeberrime tele di Caravaggio (una delle quali è custodita nella nostra Pinacoteca di Brera), quelle di Tiziano, Tintoretto, Rubens, Veronese, van Honthorst e, soprattutto, di Rembrandt che durante l’intero arco della sua produzione artistica ha avuto una particolare predilezione per questo episodio evangelico. Uno storico dell’arte, Lucien Rudrauf, si è dato la pena di censire ben 273 rappresentazioni della cena in Emmaus.
Tra il 1628 e il 1660, Rembrandt Harmenszoon Van Rijn dipinse ben quattro tele, due acqueforti e almeno una decina di disegni sul tema dei pellegrini di Emmaus e della loro cena con Gesù. Tra tutte, scegliamo la prima di queste opere, I pellegrini di Emmaus, custodita a Parigi nel piccolo Musée Jacquemart-André. Perché questo particolare interesse del pittore olandese – e, in generale, di tutta la pittura rinascimentale – per questo tema? Per l’importanza che il testo di Luca dà allo sguardo, perché l’evangelista ci racconta una storia di visione e non-visione: «Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo […] Allora si aprirono loro gli occhi» (Lc 24,16.31). E questa relazione non può non interessare la pittura del Seicento: l’incontro, l’atmosfera della locanda, il riconoscimento, le reazioni dei discepoli, la sparizione di Gesù. E allora, chi se non Caravaggio e Rembrandt – i due più grandi pittori religiosi della loro epoca, capaci di far vivere Dio fra gli uomini – poteva incarnare al meglio questo interesse?
Veniamo al dipinto del Jacquemart-André, che – come si è detto – è il primo lavoro del pittore olandese sul tema di Emmaus. L’artista è giovanissimo, appena ventiduenne, ed è impregnato di caravaggismo. Davanti al quadro si sperimenta un vero e proprio choc: sembra di assistere a un evento che è al tempo stesso pittorico e spirituale, perché si viene posti davanti a qualcosa che “avviene”, perché nella sua perfezione e semplicità – pur essendo il pittore così giovane – questo dipinto ci mette di fronte al mistero, perché l’effetto di controluce riesce a conferire all’immagine del Risorto sia un’attestazione di potenza che una sorta di invisibilità. «Il chiaroscuro qui è soggetto», scrive Simon Schama, saggista e storico dell’arte. Il chiarore che il quadro emana è debole: giunge da una candela nascosta dalla figura di Gesù che si staglia davanti a essa, e la sua debole luce è riflessa da un muro giallastro, dal discepolo con le vesti dimesse che gli sta di fronte e da una piccola porzione della tovaglia. Tutto il resto, salvo un retrocucina a malapena illuminato da un’altra piccola candela, è immerso nell’oscurità.
L’originalità di Rembrandt è qui totale: la drammatizzazione e il modo in cui con cui coglie, come in un’istantanea, la reazione dei personaggi sono assolutamente unici. Non appena il discepolo di destra mostra, con il suo spavento, di aver riconosciuto il Cristo, quello di sinistra già si è gettato ai suoi piedi. La sedia rovesciata, la coppa vacillante, il tovagliolo spiegazzato e il coltello in equilibrio sul bordo del tavolo: tutto dimostra come il pittore abbia saputo fissare la “durata” nell’“istante”. Per Rembrandt, la sfida – assolutamente vinta – è stata quella di far emergere ciò che appare incredibile, di rendere visibile ciò che, stando al testo stesso di Luca, può essere colto soltanto con gli occhi della fede.
E se fino all’inizio del Rinascimento tutti coloro che si erano cimentati col tema di Emmaus avevano insistito sulla trascendenza dando a Gesù i tratti e l’atteggiamento di un Cristo in gloria, dal Seicento in poi si tende invece a far trasparire la divinità del Cristo risorto attraverso il suo volto umano oppure mediante le reazioni dei discepoli (quello che qui fa Rembrandt). E l’estetica barocca si prestava particolarmente all’evocazione della precarietà e del cambiamento, così che nell’atteggiamento dei testimoni passi un fremito d’instabilità che riflette il passaggio di un evento soprannaturale.
Non c’è nessun dubbio: è proprio perché essi hanno riconosciuto Cristo nel compagno di viaggio che sono presi da una tale agitazione. Rembrandt non dà al Risorto un aspetto che si presti al malinteso: i capelli, il profilo, la barbetta rendono ogni confusione impossibile. Senza alcun dubbio, il discepolo di destra vede il volto di Gesù illuminato in pieno dalla luce nascosta, ma noi non lo vediamo – o meglio, lo vediamo senza vederlo – e l’incompletezza del nostro sguardo ci rende partecipi del suo spavento e dello stato intermedio tra misconoscimento e riconoscimento nel quale si trova il discepolo.
Usando gli artifici della luce, Rembrandt non esita ad accentuare al massimo il contrasto tra la fede del discepolo credente e il terrore di colui che indietreggia davanti al prodigio. Mentre il primo, che si è gettato ai piedi del Cristo per abbracciarne le ginocchia, non forma che una massa indistinta con il suo Maestro, il pover’uomo che ci sta di fronte è posto in piena luce, così che ne venga accentuata l’importanza: la camicia allargata sul collo che lascia vedere la pelle e la barba incolta ne fanno una sorta di anti-eroe, il più privo di freschezza tra tutti i dubbiosi dei tanti quadri di Emmaus che possiamo incontrare. Sotto lo choc della rivelazione e dell’esplosione di luce, il discepolo si ritrae, chinandosi all’indietro, con il braccio destro che scompare sotto la tavola e non lascia emergere che la mano, l’avambraccio sinistro leggermente sollevato, la bocca dischiusa, gli occhi sgranati e quasi fuori dalle orbite. Lui ha visto, questo è certo, ma che cosa ha visto? L’obiettivo di Rembrandt è obbligarci a chiedercelo: è terrore quel che dipinge nel suo sguardo? O è diffidenza? O l’attesa di qualcosa a cui non osiamo credere? È sorprendente e fa riflettere la scelta del pittore di offrirci un chiaroscuro “al negativo”, che mette in luce il dubbio e seppellisce nell’ombra la fede.
Fermiamoci poi un istante anche sul sacco informe, agganciato a un grosso chiodo. Esso – scrive sempre Schama – «quasi a fungere da equivalente visivo della sospensione dell’incredulità […] è l’unico elemento della composizione che sta tanto nell’ombra quanto nella luce». Con il retrobottega buio e spoglio, esso contribuisce a dare una chiara sensazione di umiltà e povertà, quasi l’artista volesse proporci una sorta di Natività al termine della presenza terrena di Cristo.
Inoltre, Rembrandt – più di tutti gli altri – è riuscito a fare ciò che sembra impossibile per la pittura: la rappresentazione di una sparizione – quella di Gesù – nell’immagine, sovrapponendo nel suo quadro le due categorie filosofiche del “visibile” (ciò che vediamo con gli occhi) e del “visuale” (ciò che sta dietro, oltre; che, pur rimanendo sorretto dalla vista, ci fa penetrare nel campo del simbolico, a cui il visibile non ha accesso). Il “visibile” è qui la presenza di Cristo e il suo misconoscimento da parte dei discepoli; il “visuale” è il presentimento di un’assenza e il riconoscimento del Maestro.
In quest’opera, in fondo, sono inclusi un passato e un futuro: le reazioni e gli atteggiamenti dei testimoni, così come la folgorante figura in chiaroscuro del Cristo contribuiscono a suggerire che questo è un momento cardine nella storia dell’Incarnazione. È quello in cui coincidono presenza e perdita, gloria e assenza; quello, in sostanza, che inaugura il nuovo e sorprendente modo col quale deve vivere il popolo dei credenti.
Nel dipinto del Jacquemart-André, Rembrandt riesce genialmente a superare la difficoltà di rendere visivamente il tema della presenza/assenza, nonché il processo di un riconoscimento che presuppone la contemporaneità della sparizione. Riesce a far sì che la pittura, arte del visibile, riesca a tradurre magistralmente il racconto lucano il cui “vertice” – come ci insegnano gli esegeti – è la necessità di “rinunciare al visibile per accedere alla verità”. Tra tutti i racconti evangelici di apparizioni di Gesù risorto, l’episodio di Emmaus è quello che più esplicitamente porta un messaggio e una missione. Non si tratta solo di far sapere che Egli ha attraversato la morte, ma di convincere che questa morte non è una fine che pone termine alla speranza di cui Gesù è portatore, ma è l’inizio di una nuova forma di presenza del Risorto tra gli uomini, la cui garanzia si trova nello spezzare il pane – gesto compiuto durante la cena – ma che necessita della Sua sparizione agli occhi della carne. Significa comprendere che il Suo luogo è ora “altrove”, in «un mondo dove l’immagine è al tempo stesso in presenza e in promessa» (Didi-Huberman). Presenza e promessa: sono in fondo le due parole che caratterizzano il lavoro di ogni opera d’arte e di questa di Rembrandt in particolare.